C’è il blu cobalto, il blu oltremare, il blu di Prussia e il blu “Baronciani”, la tinta che è riuscita a dare un colore a un’emozione: l’ansia. Quando tutto diventò blu racconta la battaglia contro questo nemico moderno e invisibile, proprio come il mostro con cui ora l’umanità sta facendo i conti. Uscito nel 2008, il fumetto di Alessandro Baronciani è tornato quest’anno in una nuova edizione a tinta unita. Scopriamo “perché” tutto diventò blu nell’intervista per exibart.talks.
Ciao Alessandro. Da poco è uscito il tuo ultimo lavoro Quando tutto diventò blu, edito da BAO Publishing. Il libro parla di Chiara, una ragazza che soffre di attacchi di panico. Com’è nata l’idea di dedicare un fumetto a un disturbo legato all’ansia?
«È nato tutto pensando a cosa, oggi, poteva diventare “avventura”. Come quella che leggevo da ragazzino nei fumetti. Volevo fare un fumetto dove il protagonista si trovava per la prima volta chiuso dentro casa, incapace di uscire fuori perché spaventato dai suoi attacchi di panico e non da una foresta in fuoco o da un tempio maledetto da cui non riusciva a trovare una via di fuga. Ho pensato che gli attacchi di panico potessero essere un’idea moderna per raccontare un’avventura. Da qui sono partito a raccontare la storia di Chiara. Il racconto semplicemente parla di questo lungo cammino, un viaggio interiore, alla scoperta di cose ignote, dentro noi stessi. Non ci sono particolari spiegazioni per cui ci troviamo improvvisamente in un momento “blu”. Capita, può capitare a tutti, gli inglesi dicono: “shit happens”».
Sei riuscito a trasformare un problema psicologico in un’avventura da affrontare. Come hai gestito l’elaborazione di una storia con un tema così delicato?
«L’idea da cui sono partito è stata provare a raccontare una storia avventurosa riprendendo il formato pocket dei fumetti di “Diabolik” e “Kriminal”, quelli disegnati da Magnus. L’ho fatto in un formato più grande e ho tolto tutte le parole inutili, disascalie, balloon, lasciando parlare le immagini.
Mi piace che nei fumetti siano le immagini a parlare e a raccontare più delle parole. C’è una striscia dei Peanuts fantastica a questo proposito, non so se l’hai mai letta: in una vignetta c’è Sally Brown – il mio personaggio preferito – in classe, alla lavagna. La maestra aveva assegnato come compito una relazione di ben 2000 parole e siccome Sally aveva letto da qualche parte che “un disegno val ben mille parole”, aveva deciso di consegnare due belle pagine disegnate!
Io la penso come Sally Brown. Ci sono immagini che nascondono mostri che vede soltanto la nostra immaginazione. Quando tutto diventò blu parla di un male oscuro, nascosto e lo fa nascondendolo nelle texture dei segni a biro blu, dove leggiamo le nostre paure e i nostri mostri».
Quando tutto diventò blu è un fumetto al 100% blu: è il colore che rispecchia lo stato d’animo della protagonista, del mare in cui le sue paure scoppiano e anche della tinta che caratterizza tutte le pagine. Puoi spiegare questa scelta interessante?
«La mia generazione è cresciuta con i cartoni animati giapponesi. Ogni merenda pomeridiana, ogni colazione prima di andare a scuola per me era un cartone animato. Alle volte se chiudo gli occhi mentre mangio pane e Nutella vedo Heidi che corre su un prato! Quando sono diventato più grande in edicola arrivarono i primi manga, e poi hanno cominciato a circolare i primi settimanali giapponesi che amici mi portavano dai loro viaggi. Avevo notato questa cosa molto interessante che nei “Shōjo” (i settimanali femminili) tra una storia e l’altra cambiavano il colore dell’inchiostro. Dato che la storia parlava di una protagonista femminile e il titolo raccontava di Quando tutto diventò blu con l’editore abbiamo pensato di colorare le pagine con questo colore. Mi piace curare i libri in ogni suo dettaglio, quando non si danno per scontato queste piccole cose. Ho imparato che molte cose sono difficili da fare soltanto perché non si conosce il modo per farle. Per questo ho sempre lavorato attivamente in tipografia, rompendo le scatole per sapere cosa si potesse fare nel magico mondo della carta stampata».
Il tuo libro non ha solo dato una forma alla paura ma anche a un altro mezzo d’espressione: la musica. Sappiamo che i tuoi disegni diventeranno un concerto a fumetti realizzato con Suner, il project festival targato Arci dedicato alle band emergenti dell’Emilia Romagna. Puoi raccontarci di questo progetto?
«Sono stato coinvolto in Suner insieme a Corrado Nuccini dei Giardini di Mirò di cui sono amico e fan! Ci sono dei concerti dei GDM visti dal vivo che sono dei ricordi indelebili di molte estati. Dopo aver cercato una strada possibile per fare qualcosa insieme abbiamo pensato a Quando tutto diventò blu.
Io avevo una bella esperienza precedente, l’estate scorsa durante il Mystfest – il più importante e longevo festival di giallo in Italia – ho avuto modo di portare in scena insieme a Carlo Lucarelli e Colapesce Negativa il mio penultimo fumetto; un thriller dalle tinte noir uscito l’anno scorso.
L’idea dello spettacolo è venuta naturale quindi, ma stavolta partendo dalla scrittura di brani inediti, una colonna sonora scritta per un libro e da portare sul palco con tanti ospiti e disegni live. La sfida è stata molto impegnativa. Purtroppo, ora è tutto fermo per l’emergenza legata al coronavirus, che ha bloccato il tour appena iniziato. Speriamo si possa riprendere nei prossimi mesi».
Parlando un po’ del passato, com’è iniziato il tuo percorso artistico?
«Sette anni di Istituto d’arte la “Scuola Del Libro” passati in una città meravigliosa: Urbino. Cinque di superiori e due di corso di Perfezionamento. I due anni dopo il diploma assolutamente necessari per la mia formazione. Poi a lavoro in un’agenzia pubblicitaria a Milano grazie a un treno interregionale che partiva da Pesaro e mi vomitava in Stazione Centrale in quattro ore e mezzo. In mezzo Bologna, dove avevo un sacco di amici che, come me, disegnavano autoproducendosi le loro storie a fumetti: Maicol & Mirco, Ratigher, Tuono Pettinato, Paper Resistance. Io avevo iniziato a fare fumetti per posta. Chiedevo ai lettori di “abbonarsi” alle mie storie che poi io, quando finivo di disegnarle, avrei spedito a casa loro. Era un modo per conoscere gente in giro per l’Italia e soprattutto per costringermi a disegnare, a rispettare consegne, a lavorare ai miei fumetti. Queste storie raccolte sono finite in un libro Una storia a fumetti. Una raccolta che mi ha permesso di pubblicare il mio libro in modo diverso dagli altri fumettisti: è stata la casa editrice a contattarmi per stampare con loro. Stampare fumetti per posta è stato il modo con cui mi sono creato in un’epoca ancora senza “amici” di Facebook o “followers” di Instagram un giro di persone che mi seguiva e che aspettava le mie storie».
Quali sono le tecniche che usi per la realizzazione dei tuoi lavori?
«Nei fumetti sono sempre stato un’autodidatta. Ancora oggi non riesco a trovare un bandolo della matassa quando mi approccio alla scrittura di un libro. La maniera più semplice per me è fare uno story-board. Cioè appuntare disegni e testo contemporaneamente. Alle volte però mi ritrovo davanti al computer a scrivere soltanto, per fissare magari dei passaggi particolari della storia».
Cosa consigli ai giovani illustratori emergenti?
«Di pensare meno ai social, alle stories. Da quando Instagram ha tolto il numero dei likes ne ho meno ansia anche io. Perché è un continuo postare per vedere cosa succede con un disegno o con un altro… così non sperimenti. Non hai un modo concreto di capire se stai facendo una cosa buona con i tuoi disegni. Se ti stampi i tuoi fumetti, se te li porti ai festival, hai modo di conoscere altri fumettisti e soprattutto i lettori. Passare tempo insieme, vedere concerti e, perché no, farsi anche delle sbronze. Ovviamente ci sono quelli che usano soltanto i social, e che si trovano un sacco di followers e likes sulla pagina e editori che gli chiedono di fare un libro. Però, boh, così non trovo dove sia il divertimento».
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