Un virus artistico prende forma in un fumetto che, dal 10 dicembre, si sta diffondendo in tutte le librerie: è il nuovo libro di Sergio Gerasi, L’Aida, edito da Bao Publishing.
A contagiare Milano sono i The Virus, dei ragazzi che usano l’arte per ribellarsi alla società. Le loro azioni provocatorie coinvolgono la protagonista del fumetto, Aida, una ragazza della borghesia milanese in conflitto con se stessa e con ciò che la circonda. Il suo disagio si riflette nella difficoltà di portare a termine la sua tesi e, proprio durante questa ricerca, la ragazza scopre il gruppo ribelle. L’incontro fortuito con i The Virus non infetta Aida ma la rende un veicolo di diffusione di un’epidemia artistica che punta al rinnovamento.
Con la pubblicazione di questo fumetto, Sergio Gerasi lascia aperte delle riflessioni importanti, che meritano di essere approfondite. Per questo abbiamo scelto di fargli qualche domanda.
Ciao Sergio, puoi raccontarci come è nata l’idea di questa storia?
«Ciao a te e ai lettori di exibart. L’idea è nata ormai due anni fa, forse di più. Lo dico per evitare che si pensi sia un instant book nato durante il lockdown, dato che in qualche maniera parlo di virus. Questo fumetto unisce diverse idee e ragionamenti che periodicamente mi appunto, ormai non più sul taccuino, ma sul telefono o sul computer, su un foglio elettronico, insomma.
Sono diventato papà ormai da sei anni e ciò mi ha spinto, anche per deformazione professionale, a proiettare nel futuro la storia che avevo davanti agli occhi e immaginare possibili e impossibili accadimenti. Anche mia figlia si chiama Aida, ma la storia che racconto in questo libro non è sua. Le idee nascono così, poi prendono la loro strada.
Inoltre, ho sempre suonato in un gruppo punk rock e gravitato vicino agli ambienti cosiddetti underground, di contro cultura, come si diceva una volta.
Con l’arrivo dei figli il gruppo è stato messo momentaneamente in stand by, ma non la voglia di “dire qualcosa” sul mondo che ci circonda. Avevamo pensato a qualche azione di street art, d’arte d’assalto, ma avevamo paura che, superati i 40 anni, non fosse così facile arrampicarsi sulla statua L.O.V.E. di Cattelan in Piazza Affari. Tutte queste idee le ho volute riversare nel libro, attribuendole a un gruppo di ragazzi decisamente più giovani».
The Virus è un gruppo artistico che cerca di contrastare con le proprie azioni anche il sistema virtuale, sottolineando il rapporto malsano della società con i social media. E tu, che rapporto hai con la virtualità?
«È vero, tengo comunque a sottolineare che la critica è più ampia: nel loro mirino rientra anche la borsa, la finanza, in un certo senso la redistribuzione della ricchezza (anche se forse in quel caso non centrano l’obiettivo) ed è anche una critica non nostalgica o antimoderna.
Io penso infatti che il virtuale non sia il male, che non sia negativo a prescindere e neanche un problema di per sé stesso. Come sempre accade è il nostro rapporto con quello che inventiamo ad essere distorto e talvolta malsano. Io, infatti, per conoscere bene ciò di cui scrivo, sono invischiato in queste cose fino al collo: virtuale, digitale, servizi on-line, delivery, social network, ecc…tutto.
Non voglio essere fuori dal tempo, al contrario voglio cercare di capirlo il più possibile per poter scrivere e disegnare libri come questo.»
Credi che in questo momento di pandemia globale i giovani stiano iniziando a rivalutare il valore del contatto umano rispetto al contatto virtuale?
«Certo, questo periodo è stato e continua ad essere pesante per tutti, soprattutto per i più giovani, che di rapporti umani e fisici ne vivono più di altri. Il distanziamento sociale, per quanto necessario in questo momento, è antiumano, diciamocelo. L’essere umano non credo riuscirà mai davvero ad annullarsi per vivere da solo con uno schermo. Detto questo però la pandemia ha dato quello strappo necessario per capire il valore (e il disvalore) di molte cose, sia del rapporto sociale vero, sia di quello virtuale.
Non possono essere più slegati, d’ora in poi dobbiamo capire che sono entrambi importanti e, a loro modo, necessari. Dovremo imparare a viverli, però, con una consapevolezza nuova, vera. Proprio per questo, quasi nessuno si permetterebbe di comportarsi in maniera violenta, volgare, aggressiva, oltraggiosa in una piazza pubblica, reale, nella nostra città. Ecco, dovremmo imparare a non farlo nemmeno dietro ad uno schermo perché non è diverso, anzi, lì ti sentono molte più persone».
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