L’utilizzo di materiali extra artistici è almeno una delle caratteristiche tipiche dell’artista che, nella mostra presente, espone tele dipinte con le stesse vernici industriali che impiega per colorare le sue sculture in poliuretano espanso.
Sergio, nel corso degli anni, pur rimanendo fedele ad una precisa idea dell’arte ed avendo consolidato la riconoscibilità delle sue opere e del suo stile, è riuscito sempre a rinnovare la sua ispirazione, sperimentando tecniche, forme e motivi diversi. Negli anni ’80 ci furono i “Relitti sessuali”, le “Ombre atomiche” e le “Farfalle notturne”, nei ’90 le “Impronte kafkiane”, gli “Insetti”, i “Corpi” e le “Metamorfosi”, per citare solo alcune delle tematiche affrontate dall’artista; dopo un anno di silenzio il 2001 prende avvio dall’esposizione veronese che porta il titolo di “Kloni”.
Perfettamente in linea con la vocazione della galleria veronese, Ragalzi si presenta come uno dei maggiori referenti di quella corrente post-umana che ha caratterizzato la fine degli anni ’80 e gli anni ’90 almeno fino alla nota “Rosso Vivo” al P.a.c. di Milano. Ecco dunque che lo spazio della galleria si è oggi popolato di strani ominidi che paiono il risultato di strane contaminazioni, feti abortiti che sembrano usciti da un incubo o da una mente deviata, esseri metamorfici che non giungono mai a completa formazione e definizione, ma si bloccano ad uno stadio sintetico nel quale appare lo sviluppo abnorme della scatola cranica e l’atrofizzazione delle appendici deambulatorie e prensili. Di fatto tali appendici risultano spesso assenti, a testimonianza che gli esseri usciti dalla fantasia dell’artista possono albergare nel mondo interagendo con esso in modi inediti, avversi alle regole della fisica e della natura.
Sulle tele i feti si manifestano ancora spesso nella fase transitoria della metamorfosi e paiono dichiarare la loro origine da una soprannaturale condensazione di materia lattiginosa, spettrale. Gli sfondi sono atri, catramati, assolutamente incombenti e impenetrabili.
Le sculture mostrano una sorta di stadio ultimo, finale della metamorfosi: il parto definitivo, l’uscita dalla placenta buia della tela. Da quelle tele sono infatti usciti esseri primari monocromi, teste deformi e abnormi sorrette da un busto sviluppato lo stretto necessario per sopportare il peso della scatola cranica ovoidale. Tutto l’essere è protetto da un’epidermide schiumosa, gibbosa, piagata irrimediabilmente. Non sembrano curarsi del mondo, paiono invece misteriosamente ed imperscrutabilmente osservare, aspettare.
Gran parte del secolo scorso si è interrogata intorno al rapporto uomo-scienza e uomo –macchina, dando luogo a tutta un immaginario fantastico nel quale è possibile riconoscere un preciso sviluppo. Antonio Caronia, sulle pagine dell’ultimo numero di Juliet, ha delineato sinteticamente questo processo di sviluppo della modernità che prende le mosse da Bacone e Cartesio per giungere, a metà del ‘900, al dibattito intorno all’intelligenza artificiale che ha accolto l’uomo quale modello per la macchina. Il robot è l’immagine esemplare di questa evoluzione teorica, costruito, di fatto, per sostituirsi all’uomo in un certo numero di operazioni e abilità. Nell’ambito di questa concezione meccanicistica uomo e macchina rimanevano, in fondo, distinti e distanti nonostante ben presto si fosse intuito il pericolo di un’ingerenza troppo invasiva della macchina nelle azioni e pratiche umane.
Ma già negli stessi anni ’50-’60, la letteratura di fantascienza cominciò a delineare una nuova possibilità di interazione tra uomo e macchina. Nelle opere di Burroughs, Ballards, Dick, si delinea infatti la possibilità di inglobare nell’organismo umano gli strumenti tecnocomunicativi che il progresso stava elaborando e mettendo a punto con straordinaria velocità. Ha origine in quell’epoca l’idea di una metamorfosi dell’organismo umano e della sua contaminazione con la macchina, si ipotizza la contaminazione e la nascita dell’ibrido. E ciò è avvenuto in un’atmosfera non dimentica della lezione alienata di matrice kafkiana che aveva, di fatto, rinnovato in forma deviata alienata un topos letterario di origine antica e classica che da Ovidio era transitato per Apuleio.
Giungiamo così a grandissimi passi agli anni ’80 e ’90 in cui la metamorfosi dell’uomo si compie all’insegna della nascita di una possibile macchina organica che, di fatto, non essendo più macchina né uomo, dà origine ad una nuova popolazione mutaforma, esseri che hanno sviluppato una nuova forma di sopravvivenza che contiene in sé l’incorruttibilità e la perfezione meccanica, ma anche la capacità rigenerativa, l’intelligenza e l’adattabilità dell’organismo umano. E’ l’epoca in cui la scienza giunge ad elaborare macchine in grado di elaborare l’informazione e, dall’altro canto, ad approfondire e concretizzare le teorie dell’ingegneria genetica che annuncia la possibilità di intervenire sul paradigma biologico umano. Gli anni ’90 hanno prodotto la cultura cyberpunk e se nel ‘59 Burroughs, dopo aver teorizzato la parola come virus, pubblicando “Il pasto nudo” aveva dato vita ad una allucinatoria visione della carne mutante nel contesto della sperimentazione delle droghe sintetiche, è con Shinya Tsukamoto ed il film “Tetsuo” che si compie definitivamente la virale contaminazione dell’organismo umano ed il suo annullamento nella nuova macchina organica, autosufficiente e autorigenerante.
Le opere di Ragalzi non sfuggono a tutto questo retaggio culturale ed anzi ad esse si allineano pedissequamente prospettando una nuova mutazione: uomo e macchina sono divenuti ormai termini privi di significato: l’unico essere compatibile con la distruzione dell’ecosistema, l’unico abitante possibile nel mondo ove l’equilibrio biologico è stato sovvertito dall’uomo-virus (ricordate Matrix?) è una nuova forma che a quella umana ha tolto ogni possibilità manuale e di spostamento, che giace nella suprema contemplazione di uno spazio ultramondano. Dal macrocosmo al microcosmo l’uomo ripiega su se stesso; devastato il mondo esterno trova rifugio nell’ultima mutazione e nell’ultimo mondo: l’inconscio, il vivere dentro di sé, il dar forma ai propri incubi e Kafka l’aveva previsto.
L’arte di Ragalzi non ha la pretesa di essere universale, essa chiede all’osservatore di condividere una visione del mondo, di accondiscendere ad un preciso disegno, non è tollerante e non ammette diversità. La scelta è tra l’incubo e la finzione del mondo reale. Perciò per alcuni le opere di Ragalzi appariranno sublimi, ad altri il frutto di un compiaciuto atteggiamento dark perfino anacronistico e sterile; ma non vi dirò da che parte sto io.
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