La nuova stagione di Pinksummer, spazio aperto lo scorso inverno in un palazzo del centro storico di Genova da Antonella Berruti e Francesca Pennone, viene inaugurata da una personale di Ceal Floyer (Karachi, 1968), un’artista che nella nuova ondata britannica emersa attorno alla metà degli anni ’90, occupa una posizione particolare. Lontana dalle “prodezze zoologiche” di Damien Hirst e dalla dimensione esistenziale dell’opera di Tracey Emin come dal taglio narrativo dei video di Sam Taylor-Wood e dalle provocatorie figurazioni di Chris Ophili, Ceal Floyer si colloca in una dimensione che è stata – forse non del tutto propriamente – definita minimalista e – con più ragione – concettuale. Di fatto il suo lavoro rappresenta una fase estrema delle tendenze che Thierry De Duve ha riunito sotto la sigla di “Résonances du readymade”.
Il procedimento dispiegato dall’artista per realizzare le installazioni che l’hanno condotta alla notorietà in ambito internazionale (con presenze alle biennali di Venezia e Sidney e ad innumerevoli rassegne fra le quali spicca “Mirror’s Edge”, curata da Okwui Enwezor, in scena a ottobre al Castello di Rivoli) parte dalla scelta di un oggetto di comune utilizzo nell’ambiente dove l’allestimento viene situato (un secchio, una porta, un faretto).
Attorno all’oggetto si dispone un gioco di conferme e smentite, fondato da una parte sulla tautologia (il titolo menziona il secchio come secchio, ciò che, secondo Floyer, “costituisce l’opera per più della metà”), dall’altro sull’introduzione di un elemento di natura illusionistica, che destabilizza il legame fra nome e cosa.
“Bucket” (“Secchio”, 1999), uno dei tre lavori presentati da Pinksummer, è realmente un secchio di plastica nera, disposto al centro di una sala. Ma il rumore sempre eguale dell’acqua che sembra gocciolarvi dentro è prodotto in realtà da un lettore CD celato al suo interno. Si tratta, quindi di una sorta di readymade ad un tempo rafforzato (dall’ordinarietà dell’oggetto prescelto più che dalla corrispondenza con il titolo) e smentito.
Analogamente, “Two slides” (1999) si impernia sulla proiezione di due diapositive sul muro della galleria. Ma le immagini proiettate – uno scorcio di cielo attraversato dalla scia di un aereo e un’inquadratura dall’alto di una distesa di mare, solcata da alcune barche – per quanto al limite dell’indistinguibile, reintroducono dimensioni spaziali e segniche.
Una più diretta sollecitazione estetica, affidata all’impatto del colore, sovverte invece l’automatismo del processo impiegato dall’artista per produrre la serie “Ink on paper” (“Inchiostro su carta”, 1999), ottenuta lasciando gradualmente defluire il liquido contenuto in un pennarello puntato al centro di un foglio. Un processo che, con il suo carattere meccanico, ironizza a sua volta sull’aura connessa alla tecnica evocata, documentando un tratto di humour che contribuisce a distanziare queste ricerche dal tono di piatta applicazione di schemi kosuthiani che è stato loro attribuito in una polemica recensione pubblicata da Michela Bompani sulle pagine genovesi de “La Repubblica”.
Sandro Ricaldone
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