Art as Life, completa retrospettiva sull’opera di
Allan Kaprow (Atlantic City, 1927 – Encinitas, 2006), non si limita a riproporre, con documentazione video e fotografica, la produzione più celebre dell’artista statunitense.
Al primo piano del museo sono presenti tele, collage e assemblage, testimonianza di un’attenzione sempre crescente allo spazio come “materiale artistico”, in un percorso che sfocerà nella realizzazione di enviroment e performace. La parte centrale della mostra presenta vario materiale: foto, appunti, istruzioni, schizzi che introducono ai video, ai quali è dedicato l’ultimo piano del museo. Lo spettatore è invitato a sedersi sui divanetti, a indossare le cuffie e a decidere con un telecomando quale di essi vedere. Al termine della visita sono a disposizione del pubblico alcune
istruzioni per performance, ideate da Kaprow, con l’invito a metterle in scena e a fornirne una documentazione al museo.
Per una volta, il luogo comune del “potevo farlo anch’io” sembra confermato: il pubblico svolge un ruolo attivo e fondamentale all’interno della mostra. Tramite un sito internet o telefonando a Villa Croce, chiunque può prenotarsi per partecipare allo svolgimento di happening organizzati dal museo genovese ma che ne superano i limiti architettonici, entrando in diretto rapporto con la città. Quelle che vengono rappresentate sono le stesse “azioni” che l’artista ha ideato e diretto dal 1958, anno in cui teorizzò l’
action collage: un’ esperienza collettiva i cui punti fondamentali sono la partecipazione del pubblico e la casualità. Un copione, infatti, può essere seguito solo entro i limiti del programmabile. Ma fino a che punto è possibile prevedere le reazioni dei singoli partecipanti? Il tempo fisico e meteorologico? È proprio nella risposta o, meglio, nella non-risposta a questo interrogativo che sta la forza del linguaggio artistico inventato da Kaprow.
È ancora la casualità a dominare l’interazione fra i visitatori e gli environment, allestiti al piano terra del museo, sotto la regia dell’artista Fluxus
Geoffrey Hendricks, che riesce a riproporre il significato che voleva trasmettere il loro ideatore alla prima realizzazione, nonostante la distanza temporale e spaziale. Anche in essi è fondamentale un’interazione che porta a vivere, toccare, modificarne ogni parte. Così, in
Apple Shrine, le mele possono e devono essere spostate e il labirinto che le contiene può e deve essere sfruttato come luogo di meditazione.
Quello degli ideatori della mostra, Eve Meyer-Hermann e Stephanie Rosenthal, è più che un omaggio all’artista americano. Dimostra che la sua arte non solo è attuale ma anche attuabile; non vive solo nella nostra memoria storica, che pure le riconosce un profondo valore innovativo nell’arte del Novecento, ma è ancora viva e praticabile pure senza il suo creatore.
Appare chiaro come ciò che unisce e sottende a tutta l’opera di Kaprow sia il valore “fisico” del fare: già alla fine degli anni ‘60, a dimostrazione di ciò, aveva cambiato il nome dei suoi happening in
activity: sancendo il passaggio da un avvenimento che sembrava semplicemente accadere a una vera e propria azione organizzata.