L’ultima mostra di
Alessandro Lupi (Genova, 1975) colloca le sue
densità fluorescenti dentro la ricostruzione minimale di un ambiente domestico, una casa fatta di poche stanze e pochi oggetti: una finestra, un letto, alcuni bauli da viaggio e una sedia. Oggetti che “dormono” nel buio della grande sala espositiva, cullati da una lunga nenia che unisce gli archi classici e la musica elettronica composta dall’artista insieme a un producer genovese.
Su questa scena appaiono le recenti sculture immateriali, protagoniste dell’ultima avventura di Lupi: una donna rossa dietro una finestra lunga e stretta come una nicchia sacra che, illuminata da una luce di Wood, appare e scompare al ritmo di un lieve scricchiolio prodotto dal braccio meccanico della lampada, suono attributo agli spettri; una donna azzurra dorme accovacciata sul fianco in un letto antico, la sua immagine fetale, area e immobile evoca la figura di un abitante di Pompei colto nel sonno dal magma o il resto di un primitivo ritrovato fra i ghiacci; una donna verde, accovacciata su una vecchia sedia con una gamba rannicchiata al petto, cita da molto lontano la compostezza del
Pensatore di
Rodin, sostituendo però alla nera compattezza del bronzo una delicata e fitta pioggia di luce vibrante nelle tonalità del giallo e del verde fluorescenti.
In un angolo della casa, un ammasso di vecchi bauli da viaggio lasciano filtrare da alcune aperture due presenze infantili, nascoste dentro le pance antiche di queste forme ormai in disuso, passate alla storia. La musica ripete il proprio sciabordio, la percezione si rilassa nella profonda penombra, interrotta da queste delicate figure incandescenti di luce sottile. L’emozione si libera. Lupi rivendica le proprietà percettive del buio, le usa per celare ed esaltare l’immagine, a vantaggio di una “scena” in cui la dialettica tra oscurità e illuminazione crea una dimensione fisica e semantica che libera una narrazione più “calda” rispetto alle precedenti presentazioni del suo lavoro.
Una scultura paradossale e “prestidigitale”, senza corpo ma con volumi esaltati, senza trucchi ma con effetti spettacolari, senza digitalizzazioni ma virtuale, senza espressione ma profondamente emotiva. Operando una trasfusione di “sangue” alle sue composizioni neo-optical, l’artista genovese fornisce le sue sculture di una vita domestica, e addomesticata, che le avvicinano a noi, come se fossero fantasmi: persone imprigionate in una dimensione di mezzo, un limbo o un purgatorio, che permette loro di mostrarsi senza esserci.
Aristotele nel
De Anima chiama
phantasmata quella specifica concretezza dell’immagine che consiste nel distacco di un grappolo di atomi dal corpo percepito e diretto all’occhio di chi vede. Lupi sembra rievocare questo ingegnoso modello filosofico, intelligente e ingenuo come ogni vero trucco di “magia”.