La Galleria Guidi & Schoen si trasforma per il tempo della mostra in un giardino dove alcuni lightbox sembrano nascere dalla terra come piante selvatiche. Un giardino iper-tecnologico, dove all’acqua è stata sostituita la corrente elettrica, alla luce del sole la retro-illuminazione delle “scatole”, alla terra il pavimento della galleria: come “
piante di plastica”, “
comprate da un uomo di plastica”, da “
bagnare con un annaffiatoio di plastica”, in un “
falso mondo di plastica”. Lo stesso Thom Yorke, che cantava la splendida
Fake Plastic Trees, era però costretto ad ammettere, alla fine del brano, di non poter evitare di provare sentimenti veri, nonostante questi siano tanto pericolosi da correre il rischio di esplodere.
Sono forti anche le emozioni che trasmette il lavoro di
Giacomo Costa (Firenze, 1970): la paura per una fine del mondo che, superando la minaccia, è già stata; la tensione nella ricerca della presenza rassicurante dell’uomo; il senso di sconfitta nel trovare come testimonianza del passaggio di quest’ultimo solo rovine e rifiuti.
I colori forti dei nuovi lavori dell’artista toscano possono ingannare: verdi e azzurri pieni prendono il posto delle tinte smorzate, tendenti alla monocromia, delle opere precedenti. Ma, in questo modo, il messaggio trasmesso dalla nuova serie è ancor più inquietante. La natura appare infatti come una forza aliena che, dopo aver vinto la battaglia contro l’uomo, ne prende il posto, invadendone gli spazi. Se nella città post-atomica tutto era macerie, ora tale livello è stato superato, e su di esse s’impone una forma di vita alternativa, decretando la fine di un’era.
Se da un lato questa constatazione lascia una profonda amarezza, dall’altra ispira un atteggiamento romantico, per il quale alle rovine è associata l’estetica del sublime e quell’attrazione per il tempo che passa, lasciando segni profondi, di cui scriveva Chateaubriand.
Dietro al “giardino incantato” presentato in mostra si nasconde, rovesciando i versi di Edgar Lee Masters, un “blasfemo”. Così Giacomo Costa, che con la sua scelta di poetica aderisce perfettamente alla radice etimologica della parola derivante dal greco: ‘blas’, che significa ‘brutto’, ‘non opportuno’, e ‘femi’, traducibile con ‘dire’.
In effetti non sta bene ricordare che il mondo finirà. Che la presenza dell’uomo sarà presto superata e dimenticata, come le sue tracce. Che la natura alla fine vince sempre, nel bene e nel male, sui tentativi di domarla. Non è
politically correct, ma esserlo sembra essere l’ultima preoccupazione di Costa.