La
prima volta è stata con il cadavere di Stalin ancora caldo. La seconda negli
anni in cui il regime sapeva già di maniera. Due viaggi a distanza di quasi
vent’anni, due incontri fatali con l’Unione Sovietica per
Henri
Cartier-Bresson (Chanteloup, 1908 – Isle-sur-la-Sorgue, 2004)
per la prima volta in Italia con i taccuini d’immagini che nel 1954 e nel
biennio ’72-’73 ha tratto dal suo peregrinare tra Mosca e gli Urali.
Una
felicità narrativa non comune, un’immediatezza linguistica sconcertante: scatti
che grattano la superficiale e obnubilante retorica di partito e affondano
nello spirito e nella carne di genti e paesi, indugiando su sguardi sempre
ricchi e curiosi. Una civiltà bambina, naïf, quasi inconsapevole: è con
benevola ironia che Cartier-Bresson distrugge un mattone alla volta la fosca
muraglia della burocrazia sovietica, scovando ovunque genuinità e dissacrante
semplicità.
Soprattutto:
senza insistere sulla Russia da protocollo; indagando semmai gli anfratti più
reconditi di un paese finalmente restituito nella sua sterminata e variopinta
complessità; nella lettura dei profili misteriosi delle lande caucasiche e
armene, rievocando il fascino incandescente delle cronache di Gurdjieff.
Ecco:
è forse nei ritratti del mistico armeno che possiamo rintracciare i parenti più
prossimi di quelli del fotografo francese. Pur nella distanza cronologica e
nella diversa scelta di mezzo espressivo, si legge l’analoga purezza
dialettica, l’innata e irresistibile capacità di riconoscere l’autenticità in
tutte le sue forme, la sensibilità di replicare una diffusa
Città della
gioia, che si trova priva di confini, totale.
Non
c’è sconcezza o ferocia nella povertà che scova Cartier-Bresson: c’è la frugale,
egalitaria, umanissima dignità dei pezzenti di
van Gogh; e non c’è
stucchevole banalità nell’antimilitarismo che permea gli scatti dove compare
l’Armata Rossa. Ingolfati in divise che sembrano enormi, sopraffatti da
stendardi e bandiere ingestibili, i soldati irrompono dalle fotografie nei loro
occhi di spiazzante ingenuità, e rivelano la natura follemente e terribilmente
giocosa d’ogni eccesso bellicistico. Nascono così parate carnascialesche che
tradiscono confusi echi gitani; gli orizzonti di gloria franano sotto i tacchi
degli stivali, all’affacciarsi curioso di una bambina che fa capolino fra i
reparti passati in rassegna sulla Piazza Rossa.
Oltre
la visione, al di là del messaggio più o meno chiaro e condivisibile, persiste
la meraviglia per l’istinto di cacciatore di un artista che sapeva tendere trappole
di inarrivabile e originale raffinatezza. Trappole nelle quali “l’attimo”
finiva per cadere con micidiale regolarità.
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Grande Bresson come sempre.