In occasione del 90esimo anniversario della scuola tedesca
più famosa del Novecento, anche Genova, come il MoMA, ne celebra linee, forme e
precetti. E per ridiscutere l’influenza del Bauhaus come modello concettuale a
cui guardare, a Palazzo Ducale sono in mostra oltre quattrocento opere di
Otto
Hofmann (Essen,
1907 – Pompeiana, Imperia, 1996).
Un autore rivalutato recentemente che, oltre a fornire
un’occasione di approfondimento sugli aspetti interdisciplinari del Bauhaus e
delle avanguardie artistiche, è utile per tracciare un percorso dove gli eventi
personali si intrecciano a quelli storici del Novecento: dal nazionalsocialismo
al comunismo russo, sino alla costruzione del muro.
Fin dalle prime sale, che documentano il periodo di
permanenza di Hofmann al Bauhaus di Dessau (1927-1930), emergono le linee
principali del fondatore
Walter Gropius, cioè forme intrise di quello sperimentalismo
culturale che tenta di conciliare la fase di progettazione con la realizzazione.
Il contributo più importante della scuola, infatti, è stato quello di innestare
l’arte, con il suo spirito vitale, nel quotidiano.
E il suo stile razionale si
è poi tradotto in perfetta coerenza tra forma e funzione, dove la libertà del
linguaggio artistico è stata applicata a oggetti di produzione seriale.
Negli anni ‘30 la censura nazista intimò però il divieto
di espressione, confiscando anche molti dei lavori di Hofmann – precedentemente
acquistati da musei tedeschi – in quanto “
arte degenerata”. In mostra segue il periodo di
prigionia in Russia (1940-46), documentato da una serie di acquerelli di
intensa e commovente bellezza. Si tratta di lettere inviate alla moglie e agli
amici artisti; appunti dipinti nati nelle trincee durante le pause del conflitto.
Testimonianze di come, anche su semplice carta da lettera, l’espressione di
Hofmann fosse prima di tutto urgenza cromatica.
Di colore – nonostante il clima sofferto, a causa delle
crescenti divergenze di ordine politico con l’avvento del comunismo – sono intrisi
anche i lavori realizzati nell’immediato dopoguerra al ritorno nella Germania
Orientale, sino all’arrivo nel 1951 a Berlino Ovest. Per quanto tragiche e a
tratti realistiche, le immagini dipinte da Hofmann si presentano essenzialmente
come visioni; composizioni che rimandano verosimilmente all’immaginario delle
favole russe, suggestione dei suoi maestri
Kandinsky e
Klee, di cui però Hofmann non
manifesta la stessa musicalità, a favore di composizioni formalmente
strutturate.
Anche nei disegni realizzati prima del trasferimento in
Italia, a metà degli anni ’70 a Pompeiana, nei pressi di Imperia, ciò che
appare a prima vista astratto è invece in Hofmann sintesi della realtà. Nei
suoi lavori le forme sono elaborate secondo un processo di astrazione e
rimandano sempre a dati oggettivi.
Come, in fondo, dimostrano i titoli di alcuni lavori, da
Luna
nel giardino (1949)
al più recente ciclo
Quattro Stagioni. Opere che evocano la luce e i toni del Mediterraneo.
Intima – e forse inevitabile – estraneità alle tragedie vissute.