Strade
in salita, quelle di Genova. Pure nell’arte. Non foss’altro per quelle due
orette scarse che la separano dalle
monstre Torino e Milano, sue ex
“compagne” ai vertici del triangolo industriale. Eppure, ricomporre la
geometria non sarebbe una cattiva idea, visto le potenzialità nascoste tra gli
impervi caruggi, le chiese fastose e i palazzi superbi.
In
uno scenario così caratteristico, facile imbattersi in spazi connotati. Come
quello della Dac, giovane galleria a due passi dalla cattedrale di San Lorenzo
e dal porto, con antiche preesistenze visibili fra le grate sul pavimento.
Con
questo ambiente si è misurato
Stefan Kübler (Balingen, 1968; vive a Dresda),
tedesco di nascita e di tavolozza, in un gioco di autocitazioni e dissolvenze.
Le inquadrature e la composizione delle tele si riallacciano ai suoi collage
fotografici, dove la visione d’insieme era ri-data da un processo di
diffrazione della stessa. Analogamente, nei dipinti il “tutto” resta
inafferrabile, soprattutto perché alla coordinata spazio si affianca quella
tempo: una durata che liquefa e offusca la realtà, opacizzandola, sbavandola,
riducendola a qualche particolare più o meno definito e riconoscibile (
set prescelti lo studio, la galleria).
Fatto
estetico o sottinteso simbolico? Più accreditabile la prima opzione, vista
anche la macchinosità di una tecnica esperita
ad hoc: Kübler lavora su lastre di
vetro, abbozza i contorni, li sfuma con un pennello più grande, poi applica
particolari solventi per “trasferirli” sulla tela, infine sfila il supporto.
L’effetto è una resa “golosa” e per certi versi ingannevole: ricoprendo
completamente la trama del quadro, infatti, il procedimento ne cancella gli
elementi visibilmente “manuali”, insinuando un che di sospettosamente
artificiale, perfino digitale. Col solletico, per giunta, di un nuovo inghippo
intellettualistico, giacché l’immagine ottenuta è in ogni caso speculare
rispetto all’originale, negativo del vero.
In
ogni caso, la manipolazione non oltrepassa il limite della distorsione:
l’oggetto della rappresentazione non viene stravolto, anche quando il
“lavaggio” è portato alle estreme conseguenze. Diluente, ma non corrosivo,
l’artista pone gentilmente lo spettatore
al di qua di una finestra immaginaria,
sulla quale ogni illusione di concretezza scivola via con onirico abbandono.