Da tempo ci aveva avvertiti, annunciando l’imminente mutamento del cinema, l’estinguersi del film tradizionale e la sua prossima evoluzione in forme espressive in cui testo e musica avrebbero assunto importanza pari alle immagini. Dal mastodontico Tulse Luper si stacca infatti una costola che approda in anteprima mondiale a Villa Croce nell’ambito del Festival della Scienza. Con I Figli dell’Uranio Peter Greenaway (1942, Newport), insieme alla compagna e regista teatrale Saskia Boddeke, si inserisce a pieno titolo nel solco tracciato da chi, sulla scia della gesamtkunstwerk wagneriana e di Skrjabin, ha rincorso il sogno di una sintesi delle arti. Teatro e performance, video e scenografia, musica (di Andrea Liberovici) e installazione si fondono in uno straordinario impianto visivo. Al suo interno, il pubblico si aggira liberamente, come in un set, incontrando, di stanza in stanza, otto figure emblematiche nel racconto della scoperta e delle incalcolabili conseguenze dell’uranio e della radioattività . Si comincia con chi ha posto le basi della ricerca scientifica: Isaac Newton; poi Joseph Smith, fondatore della setta dei Mormoni, che cercando l’oro ha invece scovato, in quel di Moab, giacimenti di uranio; mentre al padre della relatività , Albert Einstein, affabile conversatore dietro la caotica scrivania, si devono le premesse teoriche del nucleare. Fragile e inquietante, Madame Curie soffia via la polvere dalle mani con gesti nevrotici, assediata dagli alambicchi per esperimenti che l’hanno condotta a morte prematura.
Oppenheimer, costruttore della bomba atomica, siede immobile e silenzioso, come annichilito dal peso della responsabilità , stringendo la foto di un bambino deforme: davanti a lui si proiettano le immagini delle esplosioni che hanno annientato Hiroshima e Nagasaki. Stelle rosse e letto spartano: Krushev incarna l’emblema di un mondo in grado di autodistruggersi in qualunque momento, di un equilibrio puntellato dal timore che il fatidico pulsante venga premuto. Gorbaciov, circondato dagli abiti di Raissa, la interroga di fronte al suo feretro vuoto, e nella camera ardente il lutto per la moglie si trasfigura nelle esequie per un Comunismo che fa acqua da tutte le parti: lo sgocciolare raccolto da squallide pentole poste sul pavimento. Infine Bush: mazza da golf e pareti tappezzate da fotografie di rappresentanza, tra le quali s’insinuano le immagini agghiaccianti delle mostruose conseguenze del nucleare. E mentre intinge il dito in un barile di sangue, nell’uranio, peccato capitale sulla coscienza statunitense, si coagulano il pretesto dell’aggressione e un potere da custodire gelosamente. Come la mela che tiene sulla scrivania, attorno alla quale costruisce un recinto di matite con meticolosità ebete e alienata.
Alla maniera di un rebus, ogni dettaglio apre a rimandi e significati, in una rappresentazione ad alta densità simbolica. Così Eva persevera nel cibarsi del frutto della conoscenza, e se tutti i personaggi dialogano fra loro, è lei a materializzarsi in ogni stanza, manifestando con le sue lusinghe e i suoi assalti l’insopprimibile anelito dell’uomo al sapere e al potere. Conoscere è una responsabilità non da poco, soprattutto quando viene messa in luce l’estrema vulnerabilità di una civiltà potenzialmente suicida. Non si pensi però di assistere ad una condanna morale nei confronti di chi ha voluto “sapere troppo”. Aldilà del riconoscimento della dignità della ricerca, e della messa in questione dei suoi limiti, del controllo e della colpa, “quello che faccio –ci tiene a precisare Greenaway– ha più a che vedere con l’estetica che con la politica”.
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www.petergreenawayevents.com
gabriella arrigoni
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