In principio era un soldato. Poi si è trasformato in un vecchio barbuto avvolto in lunghi panni. Addirittura, nel Duecento, per Jacopo da Varagine, autore dell’agiografica
Legenda Aurea, è diventato simile a un porcospino. Certo san Sebastiano ha dovuto attendere un bel po’ prima di assumere l’immagine a noi familiare di un giovane uomo dal corpo perfetto e seminudo, legato a un albero o a una colonna e trafitto da frecce. E dire che tutto nasce da un equivoco. Perché, in realtà, questo milite cristiano fu martirizzato sì sotto Diocleziano, all’inizio del IV secolo, ma a colpi non di frecce -ai quali sopravvisse- bensì di frusta o sassi.
Il corpo virile seminudo e la postura eretta si prestavano all’indagine dell’anatomia tanto in pittura quanto in scultura. Così il Rinascimento, guardando all’arte greca, vide in Sebastiano il modello ideale per l’esercizio dei virtuosisimi, utilizzando il soggetto religioso come pretesto per indagare la pura e semplice bellezza. Di più. Una leggenda dell’VIII secolo tramandava che il martire sarebbe apparso in sogno al vescovo di Laon nelle sembianze di un bellissimo efebo. Ed ecco allora
Mantegna,
Michelangelo e
Antonello da Messina immortalarne ora la scultorea possenza, ora l’imperturbabilità ultraterrena. E poi
Caravaggio l’ambigua avvenenza,
Bernini persino la voluttà.
Il santo raggiunse la massima popolarità nel Cinquecento, invocato durante le epidemie di peste. Tra i suoi maggiori cantori figura
Guido Reni (Bologna, 1575-1642), che gli dedicò tele e un numero imprecisato di copie: oltre una decina stando al sito sansebastiano.com, che raccoglie oltre 7mila testimonianze iconografiche dall’età tardo antica. Quattro -quelle conservate al Prado, ai Capitolini, al Museo de Arte de Ponce di Porto Rico e alla Dulwich Picture Gallery- sono esposte insieme alla tela omonima conservata a Palazzo Rosso proprio nel museo genovese, al termine del percorso di visita delle collezioni permenenti. L’allestimento è un po’ kitsch, con drappi di seta azzurra sui quali si stagliano i quadri. Il che, però, introduce seminconsciamente il tema della fortuna che ebbero nell’ambiente estetizzante fra la metà dell’Ottocento e i primi del Novecento, da Oscar Wilde a Gabriele d’Annunzio.
Con allusioni di carattere omosessuale (in
Le Martyre de saint-Sébastien del Vate, il soldato era un favorito dell’imperatore) e il tormento delle frecce, metafora estatica dal significato fin troppo evidente.
Le tele di Reni appartengono a due famiglie differenti. Una, quella del capolavoro genovese, raffigura il santo come un giovane muscoloso dal volto angelico, coi riccoli biondi e la testa “guardante all’insù”. Postura nel render la quale Reni, secondo il suo biografo C. Cesare Malvasia, era di un’abilità senza pari. La tela di Palazzo Rosso fu dipinta nel 1615-6; a fianco, quella romana, che mostra piccole varianti, tra cui il numero delle frecce (tre in luogo di due) e l’età del soggetto, più efebico. Proprio la tela dei Capitolini turbò, secondo quanto racconta nelle sue
Confessioni di una maschera, il giovane Mishima, rivelandogli la sua omosessualità. Ancora lo sguardo rivolto all’insù ma di un giovane bruno, meno muscoloso e più sofferente, si trova invece nell’altro gruppo che comprende le tele di Dulwich, Madrid e Ponce (manca per ragioni conservative quella del Louvre).
In tutte, lo sfondo plumbeo mette in risalto il biancore carnale delle forme in primo piano. Ma in tutti i Sebastiano di Reni il dato sensuale è il più evidente. Tant’è vero che, come racconta Stendhal, venivano tolti dalle chiese di Roma perché innamoravano le donnicciole. Oggi, invece, li metterebbero apposta.