Post-atomica, pots-human, post-apocalittica. In una parola “post-post”. È una città ulteriore, definitiva, quella a cui ci ha abituati Giacomo Costa (Firenze 1970) negli ultimi anni. L’artista toscano, partito dai collage impazziti degli “agglomerati” architettonici, è giunto nel tempo alla raffinata e spettrale rappresentazione di una megalopoli abbandonata, catalogata in una raccolta a tiratura limitata (500 copie + 150 firmate dall’artista) di grandi cartoline: come se fosse una località turistica.
Grazie alla computer grafica e al lightbox, gli ammassi di cemento e metallo hanno la leggerezza dell’allucinazione, come quelle che si hanno in un deserto allo stremo delle forze o che hanno i preveggenti di Philip Dick. Il limite è sottile, il viaggio nella città-mondo ha vedute sempre uguali e diverse, tra distese di grattacieli in rovina, tubi aerei, canali di acque azzurre immobili sotto cieli plumbei o rasserenati. Sembra che la Storia sia svanita, è come entrare in una dimensione dove futuro e passato sono cortocircuitati ed il presente assorbito da un universo parallelo. Dalle distese in rovina l’uomo è scomparso lasciando dietro di sé una Babele di tracce ormai sbiadite come dopo secoli di piogge acide ed estati senza ozono.
I panorami di grande formato sono il nuovo vaticinio dell’artista, dove la rovina esaurisce l’aulica funzione di rimando romantico al mondo armonico dei classici ed evoca scene di vita passata in segregazione nella molochiana megalopoli che fanno pensare ai romanzi cyberpunk. Le strade laggiù in fondo a prospettive deformate, di cui Costa si giova per rendere i suoi “atti metropolitani” più vertiginosi, sono il terreno informe della foresta di ecomostri: né uomini, né merci, né alberi o automobili le popolano.
Il peso del tempo piomba su chi guarda questo spettacolo proiettato alla fine dei millenni futuri e noi, spettatori primitivi e agiati, a godere della morta bellezza di uno scheletro abbandonato. L’istante dopo sopraggiunge il dramma: dopo l’impatto iniziale e iniziatico che spaesa lo spettatore, le supposizioni si consumano dentro un corpo di sensazioni che prendono forma come in un racconto di George Orwell o di Akira. Una presenza misteriosa e irrequieta s’impone: sono le immense costruzioni biomorfe di metallo cieco, possibili parodie di alcuni odierni progetti di archistar. Sono corpi fuori scala, estranei e svettanti: immani totem che travalicano nel silenzio i grattacieli più alti.
Forse sono luoghi di ricovero di un’umanità in fuga; forse antiche astronavi o costruzioni aliene di dominio; forse ulteriori abitazioni segreganti di una più evoluta civiltà. Il tempo è passato anche su di loro, come dimostrano le ossidazioni. La città calviniana di Costa prosegue la sua spettrale vita come il vascello fantasma di Capitan Harlock. Dentro una nebulosa di rimandi ad una cultura giovanile che del futuro conserva una proiezione problematica.
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mozzicano,mozzicano.....
le opere sono originali e di grande impatto, è un'artista di grande rispetto soprattutto nel nostro panorama italiano.
unico difetto: Costa, parla troppo......
opere da forte impatto ke smuove dentro qualkosa: da sensazioni differenti, questo é importante per dare valore poiché l'indifferenza é la peggior sofferenza nel campo artistiko.
io questo artista non l'ho mai capito. Le sue immagini sono prive di mordente.
di mio! quanta invidia...
DIO MIO !!CHE BRUTI!MA POI QUANTI NE FA!
secondo me tu dipingi con l'acrilico! hahaha ehai ilcoraggio di dire certe cose?
ma smettiamola... questi lavori son piatti come le canzoni della Pausini!!!!
Magari piaciono in sud america....
ma siete scemi? son bellissimi