Sommessamente
engagé, e ultimamente appassionato d’archivi, per il
blitz genovese
Danilo Correale (Napoli, 1982; vive a Milano e Napoli) sintetizza
l’indagine fotografica sul pubblico dei concerti underground, metal, hardcore e
punk, condotta per un decennio in varie città europee. Lo spettatore, dunque,
nel ruolo dell’osservato.
Ma non è certo questo banale rovesciamento delle parti
l’obiettivo di una “depurazione” insofferente tanto dell’estetica – sbrigata
nella bicromia
dark – quanto del messaggio in sé; interessano invece gli effetti di un
mirato
détournement. Fra i numerosi scatti, l’artista ha infatti selezionato solo quelli
in cui si distinguevano chiaramente le scritte tatuate sui corpi o stampate
sulle magliette degli astanti. E, successivamente, le ha riprodotte in una
serie di manifesti, dei quali uno ingigantito e trionfalmente appeso in
galleria, gli altri impilati per il
take-away all’ingresso della medesima.
Non si contestano ovviamente gli illustri
déjà-vu (
Gonzalez-Torres su tutti), ma l’assunto di partenza
enunciato dall’autore, fin dal titolo, è il
Do it yourself predicato dalla band bostoniana
SS Decontrol, tra i profeti di uno zoccolo ribellistico (più che
rivoluzionario) che sembra però incapace di superare un certo antagonismo
velleitario, bruciato tra i decibel dello
show in forma sostanzialmente passiva.
A ben vedere, inoltre, l’operazione di straniamento
risulta duplice. Non solo perché si scava in una “nicchia” musicale, ma anche
perché si veicolano lavori oltre la “nicchia” espositiva, con una campagna
d’affissioni per le strade della Superba. Non tutte le opere, però, hanno
ottenuto l’“imprimatur” dal Comune, a causa di alcune frasi in inglese su Dio e
Satana che avrebbero potuto urtare i nervi più devoti.
Un progetto che, al di là dell’episodio “censorio”,
testimonia come spesso la decontestualizzazione, anziché fungere da detonatore,
faccia piuttosto da cassa di risonanza. Confermando un’elementare verità:
avulse dal proprio ambito originario, le parole si prestano troppo facilmente a
manipolazioni, fraintendimenti, strumentalizzazioni. Diventando quindi
pericolose, specie per chi cerca qualcosa da
temere.
Ma chi porta addosso scritte del genere, che parlano di
odio, rabbia, dolore, è davvero consapevole della loro carica – per usare un
termine oggi tornato in auge – “eversiva”? In caso contrario, che gridi su una
t-shirt, fra le pareti di una galleria o sui muri urbani, anche il più
lapidario e aggressivo degli
statement si riduce a uno slogan come tanti.
Sicché, nella Genova del G8 e degli scontri di piazza,
l’ormai desueto lessico della rivolta rischia di deflagrare nella memoria. O,
all’opposto, di diventare un’epigrafe sull’ultimo campo di una battaglia
latente, sepolta sotto le ceneri di un Paese fiduciosamente rassegnato al
peggio che deve ancora venire.