Lei non direbbe “defecare” né s’azzarderebbe a usare il termine “minzione” o a cercarne uno per sostituire la parola “cazzo”, soprattutto quando ci vuole. Ma è proprio a partire da questo punto, dal linguaggio e dalle sue malformità insostituibili (senza surrogati) che si sviluppano tutta la poetica e le visioni di
Carol Rama (Torino, 1918).
Sempre artista ma mai solo pittrice, Rama ha usato il proprio paesaggio introspettivo per farne un ponte di scambio, un tramite per apparire al mondo, così come paure e fantasie l’avevano ricreata. La furia dei suoi gesti non è mai riuscita a nascondere la cacofonia della parole-tabù né a occultare il significante umano al quale queste alludevano.
Per l’artista torinese è sempre stato un obbligo restituire alla propria esperienza artistica il coraggio ribelle di un’espressione che fungesse da accesso all’aria restia e eccessivamente compatta della conformità. Proprio perché le cosiddette parolacce scappano e la prorompenza della loro esattezza ricade sulle orecchie dell’uditorio, Rama ha sempre insistito su una poetica non insistentemente sguaiata, ma deliberatamente
obscaena,
Abnorme. Fare arte dissolvendo il mondo ha per lei significato promuovere un’azione perfetta, perpendicolare nei confronti dei codici usati dalla realtà, attraverso visioni tanto schiantate da dover necessariamente deformare lo spavento di tutto questo, nel riso distorto dello spettatore.
In mostra a Palazzo Ducale, nelle sale del Sottoporticato, ben si riassume e si concentra parte della produzione infinita dell’artista torinese. Con
L’occhio degli occhi è possibile vedere in allestimento dai primi sottilissimi disegni su carta che stilizzano la serie degli
Appassionata (1939) fino ai recentissimi disegni su stampe fatti nel 2004 (come
Luoghi e sogni ancora o
Mappa eolica).
Se da una parte i disegni medical-grotteschi riportano visioni composte ma violente e fisiologiche dell’esistenza, in qualità di soggetti come creature sessuate, dall’altra il visitatore dovrà fare i conti con le improvvise geometrie vorticose e ascendenti di disegni, come l’ipnotico
Composizione del 1951. Sorprendenti e minimali restano i collage dei primi anni ‘70, che Rama compone con vecchi copertoni di bicicletta, sfruttando i tagli sulla gomma e le screpolature sulle superfici dei materiali di recupero.
Di una grazia selvaggia e a tratti compulsiva resta la serie di disegni di mostri alati e linguacciuti (comprendente
Lontano dagli specchi del 1989 e
Angelo Rosso del 1988), disegni sovrapposti a stampe antiche che ricordano il corredo decorativo falsato, appeso alle pareti di un antico salotto borghese della Torino bene.
Dal sapore più canzonatorio e liberatorio, invece, sono gli ultimi lavori esposti, appartenenti agli anni 2000, mentre lingue rosse si stagliano su tavole di anatomia (
Lusinghe 2003), ciuffi di capelli di ogni consistenza e colore sprizzano un giro di parole che dovrebbero rimanere la degna conclusione enigmatica di questa mostra:
C’è un altro modo per finire.