In
Along the Horizon,
Ingrid Mwangi (Nairobi, 1975; vive a Ludwigshafen) sceglie di denunciare, attraverso il suo percorso artistico ormai consolidato, lo squilibrio tra il suo continente e l’Europa. Lo fa con il forte spirito critico che contraddistingue la straziante situazione di chi si sente in dovere, avendone la possibilità, di compiere prima che un’azione artistica, una di denuncia della condizione in cui vive il proprio popolo.
Artista che diventa sociologo, reporter, testimone di una realtà che filtra attraverso la propria sensibilità. Dal personale all’universale, dal singolo alla collettività: chi è stato in Africa, chi ne ha condiviso gli odori e i colori, sa che queste diverse sfere lì si fondono, perdono i contorni, come se tutto entrasse a far parte di un disegno più ampio.
Anche Mwangi rinuncia alla propria personalità, presentandosi da un lato come la figlia dell’Africa che parla all’Occidente attraverso il suo linguaggio artistico, e dall’altro come donna che perde la propria individualità nella fusione con il compagno della propria vita: così la mostra non è di Ingrid, ma di “
IngridMwangiRobertHutter nata in Kenya”.
Chi è profondamente convinto che uno più uno faccia due e che l’artista, più di chiunque altro, abbia la missione di esprimere il proprio individualismo per arricchire il mondo di un altro punto di vista, rimane stupito dalla scelta di Mwangi. Ma forse il problema di iniziale incomprensione, nonostante la nostra sia l’era della globalizzazione, sta proprio nella provenienza geografica dell’artista e da quel senso di essere parte del tutto che fa parte della cultura africana.
Del resto, la necessità di egocentrismo dell’artista è svolta e realizzata nella scelta di usare il corpo o, per meglio dire, due corpi, per esprimere il messaggio della mente o, per essere precisi, di due menti che hanno imparato per cultura e crescita comune a ragionare all’unisono.
In mostra fotografie tratte dalle serie
Ozone ed
Ebb and Flood, oltre al video
Being Bamako e a un’installazione dal titolo
In My House. Le immagini ci parlano attraverso i corpi di chi vi è ritratto: bastano gli occhi, le bocche, i movimenti a raccontare, a riportare, a denunciare situazioni socio-economiche al limite dell’accettabile, fino a toccare il problema stesso dell’identità; tanto che nelle foto della serie
Kenyan Human Mediator serve una parola scritta su un foglio di carta per affermare quella di chi è ritratto.
Il fine di Mwangi è la comunicazione. E per raggiungere tale fine la parola è il mezzo più immediato, a qualsiasi latitudine. Allora le lettere, le parole, le frasi escono dalla carta e diventano parte integrante dell’uomo che le ha generate: il supporto diventa la sua stessa pelle e l’inchiostro il suo sangue nell’affermazione di un essere che vuole imporsi all’attenzione di chi magari non osserva abbastanza o, troppo spesso, distoglie lo sguardo con eccessiva facilità.