È uno scrigno di memorie incompiute, caos (dis)ordinato di esistenze che cercano una propria identità, mantenendosi in equilibrio precario fra antico e moderno, tradizioni millenarie e volontà di strappare, superare, contaminarsi. Senza paura di confronti o censure. Ma con qualche nostalgia per un mondo che non è più. Tutto questo è l’arte cinese contemporanea come ce la presenta la mostra al Camec della Spezia, che propone una selezione di ottanta opere delle collezioni dello Shanghai Art Museum.
Pensando di trovarci davanti a oleografiche rappresentazioni di realtà lontane ed enigmatiche, lungo i tre piani ci sorprendiamo ammirando l’eterogeneità dei temi affrontati dagli artisti, la loro sapienza tecnica -tanto nel tradizionale inchiostro quanto nei video e nelle fotografie-, la bulimica capacità di ingurgitare e rimasticare -partendo da radici culturali profondissime- l’arte occidentale, creando un linguaggio nuovo. E cogliamo un costante, non troppo sussurrato bisogno di dialogo. Parafrasando un Fossati molto ispirato, pare che questi artisti chiedano, guardando a ovest e all’Italia culla delle arti: “
Ci sentite da lì?“. E noi li sentiamo, eccome.
Hoo Mojong, nell’
Angolo della stanza, mischia la prospettiva sghemba e i colori sgargianti degli interni di
Van Gogh alla disperata essenzialità di
Morandi, decontestualizzando il suo tavolo con mele e privandolo di ogni descrittivismo superfluo. È un tavolo qualsiasi in un luogo qualsiasi, in un non-luogo, ovunque: la sua è una natura morta che odora di
memento mori.
Le spirali ortogonali di grigio di
Huang Yuanquing ricordano i trasformismi a incastro di
Escher; il claustrofobico
Mai Oscillazione di
Xiang Liqing gioca con la fotografia digitale, sovrapponendo variopinti condomini come fossero mattoncini Lego, col risultato di creare un’inquietante città verticale degna del
Quinto elemento di Besson.
Il ridente
Gru di
Pei Jing e la
Giornata mondiale senza tabacco di
Zhong Biao, nelle tempere coloratissime e nel tratto lineare e deciso contaminano -e gli opposti si attraggono- certi manifesti maoisti del socialismo reale cinese con il meglio della Pop Art yankee. Mentre la roboante
Madonna con Bambino di
Liu Ye riprende tutti i temi dell’iconografia tradizionale cristiana -i cherubini svolazzanti con liuto e trombe, il trionfo di nuvole- dando loro volti con gli occhi a mandorla e forme alla
Botero, senza però sconfinare nel naïf.
La mostra spezzina fornisce più di uno spunto di riflessione, soprattutto per quanto concerne il rapporto della Cina con la globalizzazione. Come emblema prendiamo
Hong Hao, che fornisce due liste calligrafiche di
Cose mie: libri di ogni dimensione e colore accostati l’uno all’altro con certosina maniacalità come tanti piccoli fiammiferi, e un puzzle di tappi di bottiglia, monete, tessere, lattine in cui l’
horror vacui denuncia un attaccamento morboso a un’esistenza di oggetti insignificanti. È solo un desiderio di fissare se stessi, di guardarsi per un attimo allo specchio, oppure la denuncia di un’identità che fatica a ritrovarsi e rischia di affogare nel
mare magnum di un consumismo visto come inesorabile ma non per questo accolto senza resistenza?
La Cina rappresenta un universo col quale chi fa cultura deve misurarsi. Mai come ora essa è stata, si sente ed è veramente vicina. E ci offre, novella Cerere, i suoi frutti, sia artistici che intellettuali. Per coglierli, basta allungare una mano.