Nel 2004
Olivo Barbieri (Carpi, Modena, 1954) è invitato dalla regina Rania, affascinata dal suo lavoro durante una mostra londinese, a realizzare una serie sulla Giordania. Obiettivo: arredare la nuova residenza reale. Realizzata la serie, però, alcuni disguidi impediscono il progetto e Barbieri si trova con scatti straordinari e poche risposte.
Dopo quattro anni, l’inedita
Giordania di Barbieri finisce a Genova, ed è un successo. A differenza del noto lavoro su
Roma o di quelli piĂą recenti, come
Las Vegas, il cui video è stato premiato al Sundance Festival di Robert Redford,
Shanghai, entrato a far parte della collezione UniCredit, o le cascate realizzate per conto di una manifattura ceramica, il viaggio in Giordania rappresenta l’immersione in un paesaggio pietrificato, desertico, ancestrale, dal biancore solare. Un Medio Oriente in cui le rovine di un antico passato e le moderne costruzioni della metropoli non hanno soluzione di continuità .
Viste con lo sguardo di Dio, anche queste terre sono come plastici colmi di modellini a uso e consumo di un gigante bambino che si diverte a collezionare vedute aeree di un mondo in miniatura, reso innocuo da un approccio anaffettivo, ludico e asettico, dove l’umanità è trasformata in comparsa, la natura in teatro e l’architettura in gioco. In Giordania, questo sguardo ultraoggettivo, capace di andare oltre l’oggettività del mondo per denunciarne la meravigliosa vacuità e fragilità , incontra le resistenze di una natura fatta di montagne ferrose piantate nel deserto di sabbia che Barbieri innalza, con la complicità del sole, in un tripudio di onde grigie immerse in nubi rosa e arancio.
Difficile far di meglio con la fotografia, ma anche con la pittura. Le vedute di Amman hanno contorni sfumati, come un sogno di
Canaletto in via di definizione. La scena si apre fra le nebbie, in cui la stessa materia della città è strasfigurata, come se si trattasse di una quinta dipinta o di un trompe-l’oeil. Barbieri fotografa immagini, non cose. Quando giunge a Petra, la città antica che avrebbero voluto smontare e ricostruire altrove, le fotografie si fanno ancora più serrate, fino a cogliere una coppia di turisti che si trastulla sulla colonna caduta di un tempio antico e dentro un anfiteatro romano: sono comparse colte ironicamente nella sterminata solitudine assolata della storia ridotta a rovina, a oggetto inconsistente, a giocattolo rotto.
L’immagine che apre la mostra pare scattata in bianco e nero, se non fosse per le poche, verdissime chiome degli alberi tra le macerie. In realtà , milioni di pietre giacciono ai piedi di un villaggio di cui resta solo il disegno, come in uno scavo archeologico. Il senso d’abbandono contrasta con il pullulare caotico e quasi assordante delle pietre al sole. La fotografia si sporge su un abisso aperto dallo sguardo di Dio sulle cose del mondo. Lui le vede piccole così, come le fotografa Barbieri.