The
artist is present. E
non è indispensabile chiamarsi
Marina Abramovic e restar sedute per ore al MoMA.
Basta scegliersi la più anonima delle prospettive nella più grigia delle
atmosfere, eleggere un palo da “abbracciare” e la performance è fatta. Con
risultati inaspettati per l’artista stessa:
Ludovica Carbotta (Torino, 1982), che un giorno ha
deciso di cingere un lampione in una trafficata arteria torinese. Spazio
urbano, e dunque congeniale a lei, tra gli animatori del progetto di public art
Diogene e
spesso confrontatasi con quella che definisce “
la forma del costruito,
l’architettura creata dall’uomo come forma appartenente al mondo naturale,
organismo in perenne metamorfosi”
.E
con la stratificazione dinamica del “
costruito” ha tentato di omologarsi,
contrapponendovi la propria immobilità. Obiettivo non l’interazione con i
passanti – seppur occasionalmente verificatasi – ma la percezione analitica del
proprio corpo, fino alla registrazione di una lenta reificazione, acuita dalla
sosta prolungata.
Un’esplorazione
privata in pubblico, e con un imprevisto che ha dimezzato il tempo di quattro
ore inizialmente programmato: l’arrivo delle forze dell’ordine, evidentemente
allertate da qualcuno (insospettito? Preoccupato?), che hanno cortesemente
invitato l’artista ad allontanarsi, per la sua stessa incolumità e i paventati
intralci alla circolazione
. Un intervento che suggerisce la portata
“eversiva”
dell’inazione rispetto alla
frenesia circostante: affermare un
altro punto di vista, imporsi fino a mimetizzarsi fra
automobili e viandanti condannati al moto perpetuo.
Nonostante
lo stop anticipato, “
il viaggio” – parafrasando il titolo della mostra – “
è andato a meraviglia”. Fruttando l’
Esercizio 1, un video di 120 minuti a
inquadratura fissa, dal quale però Carbotta ha volutamente eliminato i dialoghi
con i passanti e con gli agenti: “
Ho scelto di non far vedere questa parte,
per cercare di rendere il tempo del video illimitato, senza inizio né fine.
Quel che ne risulta è un’immagine quasi pittorica in cui parte dell’emotività
dell’azione non traspare. L’esperienza individuale vissuta è in qualche modo
celata. Questo aspetto è una costante del mio lavoro: l’esperienza che
determina la forma non è mai completamente rivelata agli occhi dello spettatore,
ma costituisce una parte intima e personale”.
A complemento del primo, si pone l’
Esercizio 2: 120 disegni, eseguiti ciascuno
nell’arco di un minuto. Improvvisazioni nient’affatto documentarie, un album di
schizzi “automatici” scevri da intenti rappresentativi in quanto alla
riconoscibilità dei luoghi, ognuno dei quali riprodotto su una copertina
numerata del catalogo-quadernetto: “
Ogni singolo elemento si accostava per
l’urgenza di registrarne la forma cosi come la vedevo in quel momento”, spiega l’autrice. “
Mi
piaceva l’idea che anche in senso fisico lo spettatore potesse conservare solo
un frammento dell’intero progetto”.
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ma che brava questa carbotta! ma che brava a scopiazzare di qua e di là! giunta negli ambienti "alti" grazie al progetto Diogene senza il quale sarebbe ancora a fare borsette e vestitini. finiamola di prendere per il culo chi lavora seriamente.
Giovanni B, ma come si fa a scrivere in questo modo? davvero questa è la palestra dei frustrati, che insultano e denigrano gratuitamente chiunque riesca appena ad emergere, anche quando lo merita, come in questo caso.