‘Tradizione’
è una parola che non fa paura a
Gianni Berengo Gardin (Santa Margherita Ligure, Genova,
1930; vive a Milano). A costo di apparire talvolta banale, manierato. O
semplicemente semplice. Perciò, tanto nella parte antologica quanto in quella site
specific, la sua personale alla Fondazione Remotti propone il dilemma: icona o
stereotipo? L’emigrante con la valigia di cartone, gli innamorati sulla
panchina, l’addio struggente alla stazione, l’utilitaria davanti all’infinito
del mare. Situazioni e inquadrature
déjà-vu ma di diuturno effetto, magari un
po’ artefatte – le mani aggrappate all’orlo della barca, la donna
misteriosamente stecchita sul marciapiede -, che però “bucano”
l’irrinunciabile, rigoroso bianco e nero.
Con
sicuro mestiere, l’obiettivo si cimenta indifferentemente con le eleganti
volumetrie di una stola di pelliccia come col cristallizzato involucro di
un’architettura famosa, tra riflessi e ombre (i calciatori allungati a
dismisura su quello che diventa un piano inclinato, l’interno del vaporetto a
Venezia), ricercando la soluzione icastica, che onori il verbo ‘immortalare’.
Le composizioni, poi, vanno per analogia (la matronale zingara che quasi si
fonde, per esuberanza decorativa, con il Sacro Cuore di Gesù) o per sapiente
bilanciamento (due ragazzi in costume da bagno giocano a palla, indifferenti
alla fila di tank oltre la cancellata, emblematica cesura tra due “normalità”
di una Berlino ancora divisa).
E
a proposito di politica… Osservando la foto del Primo Maggio 1969 a Milano,
dove un certo Stalin sbuca tra i cartelloni dei manifestanti, ci si rende conto
di quanto fosse coriaceo il mito di “Baffone”, nonostante il Rapporto Segreto
del XX congresso del Pcus, tredici anni prima, ne avesse smascherato le
nefandezze.
Gardin
alterna insomma l’immediatezza del documento a quella dell’immagine
“costruita”, tra metafisica, antropologia e realismo, con una patina
nostalgica.
Caratteristiche
che tornano nel volume
Camogli, commissionato dal Comune ligure, di cui è esposta una
selezione di scatti al piano superiore. Un racconto del suo paese “adottivo”,
che l’artista realizza in maniera romanticamente convenzionale, puntando sugli
scenari più suggestivi e su una quotidianità senza tempo: mare e sole, pescatori
operosi, barche in fila come anatre, case abbarbicate sul ripido costone,
notturni punteggiati di luce.
Anche
qui, una famiglia di spalle scruta l’orizzonte, sospesa nell’intramontabile
dimensione del classico.