Non è cosa semplice fare una mostra bella con opere brutte. Questo è il pensiero del visitatore che riesca a dissociare la forma dal soggetto, valutabile in base a scelte confessionali fuori discussione. Lo spazio è bellissimo: si è recuperato un oratorio con tocco leggero ma non ipocrita, lasciando a vista quello che era utile vedere (brani di mura, l’abside voltata con la sua scaletta morta), ma senza dimenticare che la museografia ha avuto i suoi Scarpa e, in Liguria, i suoi Albini, e che nulla vieta il vetro e l’acciaio a vista, magari uniti al legno locale. In futuro queste sale ospiteranno i beni della diocesi di La Spezia, Sarzana e Brugnato: lasciamo perdere che l’opera è un progetto giubilare nato in ritardo: non è il primo e non sarà l’ultimo.
E la cura della mostra, voluta da Fabrizio Mismas e don Cesare Giani, affiancati dalla cooperativa Koiné e da Gianfranco Ricco per l’allestimento, è inappuntabile: nel pieghevole c’è scritto tutto (e solo) quello che serve, maggiori informazioni sono nelle schede a disposizione dei visitatori, i cartellini delle opere sono completi senza essere “schedoni” di soprintendenza, l’illuminazione è buona. Ma, inutile negarlo, molte opere sono mediocri. Salvo quelle che colpiscono per la pervicacia con cui si scimmiotta il Duecento, si fatica a trovare uno sprazzo di “non già visto”. Aprigliano ricorda il Funi più fascista, con guizzi di colore alla Ferrazzi (eppure il pittore è stato vicino al futurismo spezzino); un Don Bosco di Del Santo andrebbe segnalato come plagio da Canonica, mentre il Cristo morto pare dell’epoca di Maderno, tanto è classicheggiante nel suo virtuosismo (ma Del Santo è allievo di Bistolfi, scultore per nulla mediocre); le opere di Bernardini, Mordacci e Raggio, rigide ma esasperate nei volti (fa moderno), sono di quelle che si sopportano solo davanti alle chiese statunitensi.
La stilizzazione di Ambrogetti è già un passo avanti, e non a caso l’artista fu allievo di Greco, la cui ombra appesantisce le formelle di Carro, che non sarebbero nate senza la porta di Greco a Orvieto, che tanto fece discutere.
E dispiace, perché dove Carro lascia il modello, sfilacciando i corpi rivela una plasticità personale.
Anche Giovannoni, con le sue opere scarne ma non semplificate, attira lo sguardo, soprattutto col Cristo deposto, memore dei crocifissi lignei trecenteschi sparsi tra Pisa e Sarzana. Pure Mismas, con una Passione secondo Luca, emerge dal gruppo: la terracotta è calda e vibrante di luce, animata ma non confusa.
Allora, di fronte a questa produzione corrente, può sorgere il dubbio che il problema non sia negli artisti, ma nel tema. E se si pensa che il migliore artista sacro del Novecento, Manzù, rischiò una scomunica, come si può non chiedersi se l’arte sacra oggi sia ancora arte o non piuttosto mestiere?
Irene Buonazia
mostra vista il 18 marzo 2001
Ci sono linguaggi innovativi che stanno diventando una forma di laboratorio permanente preposto a raccontare nuove forme dell’essere e del…
Sfide e innovazioni nel sistema dell'arte. Una ricognizione sul ruolo crescente dei mercati online peer-to-peer e sulle differenze rispetto alle…
Nella suggestiva cornice della tenuta Bonotto Delle Tezze, fino al 21 luglio la terza edizione di “Officina Malanotte” promuove una…
L’undicesima edizione di Kappa FuturFestival, uno dei festival di musica elettronica più famosi al mondo si conclude oggi al Parco…
Other Identity è la rubrica dedicata al racconto delle nuove identità visive e culturali e della loro rappresentazione nel terzo…
Il Parco Archeologico di Segesta, visitabile gratuitamente per la prima domenica del mese, presenta l’installazione di Silvia Scaringella e una…