Il luogo del progetto ideato dal fotografo francese e in parte presentato alla galleria Vision Quest è quello della spiaggia di Tel Aviv; il tempo coincide con gli anni della seconda Intifada, combattuta in quegli stessi territori. Nel 2002, le zone nelle quali avvennero gli scontri furono drasticamente separate dalla costruzione di un muro; unica zona esclusa dalla sua presenza minacciosa e pregna di significato rimase la fascia costiera della capitale dello stato ebraico.
È questa la realtà vissuta da
Michel Kirch nel periodo della sua permanenza in Israele. Ma il primo punto del vademecum alla buona visione dell’esposizione invita a prestare attenzione per non cadere in facili categorizzazioni sulla natura dell’intento fotografico. Sebbene il titolo della mostra,
Al di là del muro, faccia esplicito riferimento agli accadimenti bellici, il progetto di Kirch va infatti decisamente oltre un mero intento cronachistico.
In realtà la zona “al di là del muro”, soggetto degli scatti, è la spiaggia, resa territorio franco dall’assenza di barriere architettoniche delimitanti; un’oasi pacifica fra gli scontri. E se di per sé la spiaggia è un luogo di svago, qui diventa simbolo per eccellenza dello scorrere quieto e ordinario dell’esistenza, nonostante la prossimità del conflitto.
Il fotografo di origine ebraica sceglie di non schierarsi e risolve il dissidio documentando un altro tipo di muro “al di là” della fortificazione reale: le caratteristiche visioni a volo d’uccello appiattiscono ogni possibile fuga prospettica e trasformano il dato naturale in grandi superfici piane, sulle quali la mobilità ambientale disegna texture decorative che fanno dimenticare il referente reale.
È l’astrazione dal contingente e il rifugio nell’estetico che salvano l’individuo dalla tragedia; il percorso circolare delle stampe che sfilano lungo il perimetro della sala espositiva sembra quasi un cammino di purificazione dello sguardo.
L’uso del teleobiettivo, che potrebbe sembrare un tentativo per insinuarsi discretamente nelle quotidiane esistenze altrui, diventa un modo per inglobare armonicamente – rendendolo parte integrante del grande gioco visivo – l’individuo nella natura.
La contemplazione della bellezza e della precisione ritmica degli elementi si lega a ogni oggetto fotografato; il fascino della fluttuazione nel vuoto aereo appartiene egualmente a uccelli, aeroplani e addirittura a un uomo in equilibrio precario su una corda, la cui sagoma si staglia scura sull’estensione illimitata del mare.
Il bianco e nero sempre nitido aiuta l’astrazione. E se, da un lato, l’andare oltre il soggetto attraverso una precisa ricerca compositiva e luminosa sembra strizzare l’occhio alla storica anima fotografica americana capeggiata da
Adams, dall’altro la pregnanza concettuale dell’operazione ricorda come si stia pur sempre cercando di raccontare una storia vera. E quindi non ci si allontani molto dalla pratica del reportage.