Qual è lo scopo della neonata Fondazione Zappettini?
Conservare l’opera di Gianfranco Zappettini e promuovere la conoscenza e il dibattito sulla Pittura analitica. Promuovere esposizioni e offrire un servizio di informazione bibliografica, fotografica e audiovisiva costantemente aggiornato per consulenze a studiosi, redazioni di periodici, case editrici e ad altre associazioni promotrici di mostre sia in Italia che all’estero.
Qual è la forza e la debolezza di una fondazione a Chiavari, lontana quindi dai circuiti metropolitani?
La forza sta nel fatto che il movimento deve ancora godere dei meriti che ha avuto e che ha, e quindi attende un riconoscimento che deve arrivare. La debolezza della provincia è evidente, per questo abbiamo aperto uno spazio anche a Milano.
Per quali ragioni il movimento, che ha molti nomi come Pittura pittura, Nuova pittura, Astrazione analitica, etc., non ha avuto i riconoscimenti che merita?
Per diverse ragioni anche storiche, come l’oscuramento prodotto dall’Arte Povera e dalla Transavanguardia, due gruppi meno freddi della pittura monocroma. Il movimento aveva elementi utili per affermarsi, era composto da bravi artisti ed era internazionale, principalmente europeo con dei padri ideali nella pittura americana. Purtroppo il critico di riferimento Filiberto Menna, che aveva tutte le carte per essere il teorizzatore del movimento ed era apprezzato in campo internazionale, è mancato prematuramente. Gli altri gruppi hanno goduto invece della presenza di Germano Celant e Bonito Oliva, che hanno lavorato come efficaci autocrati. Un altro motivo di debolezza è stata l’alta litigiosità, dovuta al rigore cartesiano richiesto dalla Pittura analitica. Basti pensare al rigore di un Mondrian che rompe con l’amico Van Doesburg e lo caccia da De Stijl perché questi ha fatto la diagonale. L’analitica è un genere d’arte che richiede rigore. E’ stato un errore non essere tolleranti.
Anche le gallerie hanno fatto la loro parte? Parliamo del mercato di questo movimento.
In quegli anni alcune gallerie che lavoravano con il movimento sono andate in crisi, altre lo hanno abbandonato. Il mercato non attribuisce qualità artistica, ma aiuta molto e anche se non basta soltanto il riscontro commerciale, certamente è una componente essenziale per il successo di un movimento. Oggi galleristi come Niccoli, Fumagalli, Grossetti, Turchetto e Studio Invernizzi continuano o riscoprono la Pittura analitica. E’ un passo importante anche perché i prezzi sono ancora bassi.
E se Menna avesse potuto fare la Biennale di Venezia?
Sicuramente il movimento avrebbe avuto un’attenzione superiore a livello mondiale. Probabilmente ci sarebbe stata una richiesta dalla mitica America, con mostre e galleristi disposti a rappresentarli. Filiberto Menna era affermato e stimato, lui avrebbe potuto giovare molto. Ma la storia non si fa con i se. E poi le debolezze interne, come il litigio e il minore attaccamento all’ideologia del movimento, erano comunque molto forti. Non che gli altri avessero forti presupposti, ma c’era una solidarietà di gruppo per cui sono riusciti a proporsi alle gallerie e ai musei.
E arriviamo al ruolo dei musei…
In Italia si dice che non ci sono musei di arte contemporanea, ma non è vero. Non abbiamo grandi collezioni d’arte internazionale e non abbiamo i grandi musei, ma per gli artisti italiani, specie di alcuni periodi, ci sono ottime collezioni. Solo che da vent’anni a questa parte i musei vogliono fare le mostre temporanee. Abbiamo i magazzini pieni di opere e facciamo le mostre e gli eventi, dove il direttore finisce sui giornali una volta al mese. In più c’è una esterofilia paurosa, che spesso dedica mostre ad artisti stranieri non importanti lasciando gli italiani fuori. Penso a bravi italiani come Licini o Capogrossi. Lo Savio, soltanto
Collaborerete con realtà come questa?
Stiamo lavorando con la sede di Milano per dialogare con altre fondazioni, come Fontana, Burri o Panza Di Biumo, e fare esposizioni piccole di dialogo tra nostri artisti e artisti dell’epoca. E’ solo un’ipotesi, se pensi che le fondazioni non prendono quasi una lira e vivono del proprio patrimonio. Lo stato dovrebbe tutelarle, ma hanno contributi irrisori: di fatto sono private. Fanno un lavoro enorme non riconosciuto. La finestra su Milano servirà a collaborare con loro.
Come può essere attuale una pittura metalinguistica che risente della fortuna dello strutturalismo?
Arrivano le mode e le sposiamo subito. Quasi ci vergogniamo di avere una tradizione. Quando è arrivato lo strutturalismo, sono diventati tutti strutturalisti. Dopo è arrivato Heidegger e tutti sono diventati heideggeriani. I francesi che hanno Bergson come noi abbiamo Croce, si comportano diversamente. Prendi il marxismo, ieri non c’era articolo che avesse meno di quattro citazioni di Marx, oggi sembra sparito dalle librerie. Per l’arte analitica si trattava di rimanere nella pittura rinnovandola. Lo hanno fatto cominciando a riflettere sugli elementi fondamentali, producendo un’autocoscienza della pittura che credo sia sempre attuale, anche se si può esprimere in modi diversi. Oggi ci sono le giovani generazioni che fanno il monocromo come gli artisti di un tempo, divenendo degli epigoni, ma alcuni introducono elementi decorativi che rappresentano un interessante sviluppo ulteriore. Il movimento ha creato qualche figlio e penso che possa dare stimoli alla fotografia e al video. Ci sono esempi di video e foto con immagini monocrome. L’autocoscienza della pittura si può ritrovare in forme non pittoriche.
Quale criterio sottende la scelta degli artisti esposti a Chiavari e quale sarà il criterio per scegliere gli artisti da archiviare nella fondazione?
Maggior presenza alle mostre, maggior rigore nel lavoro e la continuità nel tempo. L’obiettivo è arrivare a una grandissima mostra con una campionatura di tutti gli artisti analitici, italiani e stranieri. Occorrerà stabilire contatti all’estero. Per ora mandiamo la mostra a Gallarate in ottobre e se possiamo anche all’estero.
E Milano: è stata una scelta o è capitato?
Lei da anni dirige la rivista Titolo, come ci è arrivato?
Io sono di formazione filosofica. Nel 1973 ho pubblicato un libro su Gramsci e a Perugia mi sono dedicato alla politica, iniziando a interessarmi d’arte per passione. Fino a che mi sono ritirato dalla politica ed ho fondato la rivista Arte in Umbria, pensando di portare la regione dentro il sistema dell’arte. Ma in Umbria non mi si filava nessuno anche se la rivista piaceva in Italia, era di nicchia ma aveva validi collaboratori e grossi nomi. I criteri di scelta non sono rigidissimi: non seguiamo i fenomeni di moda e c’è attenzione per artisti meno in vetrina, sia giovani che meno giovani. Si parla di Pittura Pittura, che personalmente ho sempre trattato ed esposto. Adesso faremo numeri monografici con temi trasversali come “arte e città” o “arte e fotografia”, con articoli scelti in base a tematiche. Mi dicono che Titolo è una rivista che si legge, il che è un grande complimento perché altre si sfogliano soltanto. E poi mi impegno con editoriali dedicati alla politica dell’arte. Siamo impegnati ma aperti.
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