Giorno 1 – Dopo mesi di preparativi, entusiasmo, tensioni, non mi sembra vero di essere arrivata a Shenzhen! È una giornata calda, umida. Mi affretto, ad aspettarmi Maurizio e Alice arrivati qualche giorno prima, ho voglia di vederli e di farmi anticipare ciò che dovrò vedere nei prossimi cinque giorni, farmi raccontare della città, della gente. A prima vista Shenzhen sembra una tipica città asiatica, come tante d’altronde viste nei miei viaggi precedenti in oriente, ma quando arrivo al quartiere di LuoHu mi accorgo della differenza. La città è cresciuta velocemente e continua ad espandersi ma gli abitanti non sembrano vittime della cementificazione come altrove, al contrario sembrano essere in armonia con la loro città, c’è tranquillità tra i viali alberati. Quello che fino a trent’anni fa era solo un piccolo villaggio, oggi è un quartiere di una metropoli, ma gli abitanti sembrano seguire i ritmi del vecchio villaggio.
Giorno 2 – Il Luohu Museum è lo spazio culturale di questo quartiere ed è realmente il museo per gli abitanti della zona. Sarà per la sua conformazione architettonica: una costruzione bassa che si sviluppa attorno ad un parco nel quale fin dalla mattina gruppi di donne e uomini di tutte le età si ritrovano per fare attività di vario genere, dal ballo alla ginnastica… sarà per il suo accesso diretto sul parco: le grandi vetrate che lo attorniano non pongono barriere visive tra la vegetazione e il cemento delle sale… fatto sta che questo non ha l’aspetto di un Museo per pochi addetti e amanti dell’arte, ma è realmente per tutti e lo dimostra la disinvoltura con la quale la gente entra ed esce, tra un giro di aerobica e uno di footing in ciabatte attorno al parco.
Così le opere perdono un po’ del loro mistero e si arricchiscono della vivacità della vita quotidiana. Dentro e fuori. Non c’è una separazione netta tra le cose!
Giorno 3 – I lavori procedono lentamente, devo ammettere, a poco sono servite le mie istruzioni scritte con tanta cura dall’Italia, adesso che sono qui mi accorgo che non ha senso ostentare controllo, non impressiona nessuno. Qui le cose crescono un passo dopo l’altro senza pianificazione. Crescono come cresce una pianta. Bisogna lasciarsi andare, abbandonare le reticenze e lasciare che le cose avvengano, mi sembra di averlo sempre saputo e di averlo sempre sentito dire, quindi oggi non farò altro che adattarmi al nuovo ritmo e aspettare che tutto si compia. Vedrò il mio Horizon prima o poi, loro lo sanno e a lavorare ci siamo in tanti e si sà, la moltitudine è una risorsa.
Giorno 4 – Faccio le prime conoscenze attorno ad un tavolo, un pranzo veloce con l’immancabile take away asiatico: riso nello scomparto più ampio e un miscuglio di qualche cosa in quelli più piccoli. Non c’è molto tempo per imparare i nomi dei piatti, né di capire con quali ingredienti sono fatti…il mio e il loro vocabolario di parole in inglese si esaurisce tra una boccata e l’altra, poi si conversa con gesti e sorrisi. Ma Alice no, lei parla cinese, che fortuna! Così veniamo a sapere che gran parte dei ragazzi che si aggirano tra le sale del Museo sono studenti, volontari felici di poter contribuire alla realizzazione della prima edizione di questa biennale!
Giorno 5 – L’ansia aumenta. Farò la mia prima intervista video. Me lo ha appena detto Janet. I pensieri cominciano ad intrecciarsi nella mia testa. Come descrivere un lavoro che ho visto realizzarsi solo nella mia testa? Un lavoro immaginato come una ”immagine” da attraversare, una scultura permeabile, geometrica e ordinata che ambisce a racchiudere in se il senso di una natura disordinata. Un paesaggio solo sognato. Si addentrerà il pubblico in questo nuovo paesaggio?!
Giorno 6 – Ci siamo, arrivano gli invitati, la direttrice He Jing, le due curatrici Janet Fong, Zehui Tang, Alice Cazzaniga, Antonio, mio compagno di vita e di lavoro e noi, 21 artisti provenienti da diverse Nazioni e da diverse città della Cina, tutti schierati. Selfie a non finire, come sfondo il profilo delle montagne di Guilin in blu. Non mi sbagliavo, tanti gli abitanti del quartiere, tanti i bambini. Nessun tentennamento, la gente si addentra come se fosse naturale farlo e sosta nello spazio che ho creato per loro e per me: un’isola, una stanza nella quale rifugiarsi e guardare da un’altra prospettiva, attraverso l’orizzonte. Dentro e fuori. Non c’è una separazione netta tra le cose.
Laura Renna