Jelili Atiku è nato nel 1968 a Lagos, in Nigeria. È considerato pioniere della performance art contemporanea nel suo Paese. A Manifesta 12, invitato come uno degli artisti protagonisti in scena nella tragica bellezza di Palazzo Costantino, su via Maqueda, ci ha raccontato il suo progetto, che porta con sé anche due proverbi esemplari.
«Nell’agosto 2017 quando ho visitato Palermo invitato da Manifesta per studiare la città sono andato all’Orto Botanico e sono rimasto affascinato dalla storia di più di 12mila specie di piante, specialmente da quelle non di origine europea. Queste piante sono loro stesse migranti che hanno viaggiato attraverso il Mediterraneo. Sono un’allegoria dell’attuale discussione globale tra migrazione e immigrazione. Le storie di queste piante si adattano comodamente alla storia della nascita di Palermo. Secondo l’Enciclopedia Britannica Palermo fu fondata da commercianti fenici nell’VIII secolo A.C., poi divenne insediamento cartaginese, poi in parte conquistata dai Romani nel 254 A.C., poi vennero gli Ostrogoti, gli Arabi che la conquistarono nell’831 e il dominio Normanno (1072-1194) segnò l’età d’oro di Palermo, “in cui greci, arabi, ebrei e normanni lavorarono insieme con un’armonia singolare per creare una cultura cosmopolita di notevole vitalità”. La scorsa estate due proverbi erano sempre nella mia mente: “Tutte le piante sono nostri fratelli e sorelle e ci parlano, e se ascoltiamo possiamo sentirle”, proverbio africano, e un proverbio spagnolo che dice “Tante cose che non sono state seminante crescono in un giardino”. Questa premessa serve alla mia performance a Manifesta. Intitolata Festino della Terra (Festival of the Earth) (Alaraagbo XIII), prenderà forma tramite una processione con l’obiettivo di offrire una maniera alternativa per guardare al problema delle migrazioni. Il fulcro delle attività qui è costituito da performance e installazioni utilizzando elementi presi dall’Orto Botanico e integrerà il “festival” con camminate, suoni, rituali, portando in scena oggetti organici, in particolare piante e terra, senza mai però intenderle come scultura. In sostanza, lo scopo è quello di sviluppare una performance con un contesto che consente l’interazione di arte, scienze agricole, culture e società e fare una dichiarazione metaforica sui temi dell’immigrazione e della migrazione utilizzando elementi della natura».