Categorie: Il fatto

Addio, occhio di Venezia

di - 20 Aprile 2016
«La fotografia è al 70 per cento casualità, come la vita stessa. Casualità e mistero. L’intuizione è fulminante, passa…e tac!». Sono parole che Fulvio Roiter aveva detto durante una delle sue ultime interviste. Un frammento che la dice lunga su quest’uomo di 89 anni, che sulla sua Venezia aveva costruito una carriera, tutta in pellicola.
«La fotografia è il linguaggio del nostro tempo – aveva raccontato Roiter – non potrebbe esistere un evento senza l’immagine. E noi fotografi siamo gli interpreti, i narratori speciali dotati di quella sensibilità che ci permette con una sola immagine di poter immortalare l’essenza del fatto. Io fotografo per emozionare, per trasmettere tutto quello che ho dentro», spiegava. Compagno di viaggio di Alberto Moravia, nel 1956 in Francia vinse il Premio Nadar per un libro dedicato all’Umbria. Già, i libri, il miglior modo di conoscere la fotografia quando non la si può vedere dal vivo. Il problema è che le grandi tirature, e le oltre cento pubblicazioni avute, avevano fatto storcere il naso a molti, e Roiter era stato definito “Industriale dell’immagine”. Qualcuno vuole senza accezione negativa, ma per un artista – anche se si tratta di fotografia – la serialità è “serietà” solo quando viene paragonata a certe poetiche che appartengo alle dinamiche della Pop Art in primis.
Venise a fleur d’eau è il titolo del primo libro, edito nel 1954, a raccontare della laguna che, tramite le immagini di Roiter, ha vissuto gli ultimi sessant’anni di pura immortalità. Poi vennero i reportage sui viaggi: la Sicilia a bordo di un motorino, l’Andalusia, il Brasile e l’Amazzonia, la Persia, la Turchia, il Messico, fino alla Costa d’Avorio. Qualcuno avrebbe potuto definirlo lo Steve McCurry italiano, e forse un poco è così. Ma cosa importa quando c’è così tanta poesia, specialmente nei confronti di quella città più fotografata, e invidiata, patrimonio mondiale e tutto italiano? (MB)

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