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Nonni e genitori si dividevano in due fazioni: chi diceva studia, e chi diceva “trovati un lavoro”. Chi aveva ragione non lo ha mai scoperto nessuno; lo dice solo la propria personale esperienza. Chi ha studiato spesso si ritrova col dire “Forse ho perso tempo”; chi ha scelto il lavoro, a posteriori, si dice “Forse ho perso un’occasione”.
Nel nostro Paese, in realtà, forse si affermano entrambe le dichiarazioni, schizofrenicamente.
Perché? Perché da un lato c’è Eurostat, che in un sondaggio racconta come nel 2016 solo il 26 per cento degli italiani abbia conseguito una laurea. Solo la Romania fa peggio di noi. E poi ci sono gli abbandoni scolastici con il 14 per cento circa dei 18-24enni, che non ha raggiunto nemmeno un diploma di scuola secondaria.
La media che l’Italia dovrebbe tenere, entro il 2020, per essere allineata all’Europa, è il 40 per cento di popolazione laureata. Ma per “far laureare” qualcuno, oltre al denaro delle famiglie, o ai sussidi, alle borse di studio e agli annessi e connessi, c’è bisogno di dare qualcosa in più, di fondamentale: la speranza che la tesi non sia solo un malloppo di fogli rilegati e che la pergamena non sia un pezzo di carta da appendere nella propria cameretta per l’orgoglio di mammà.
In questo i giovani e la loro volontà è fondamentale, ma l’economia di uno stato? I famosi “posti per i laureati”? E se poi dopo la laurea arriva il fatidico “Non c’è lavoro per quel che ho studiato”? Vaglielo dire ai giovani. Che allora fanno le valigie e se ne vanno all’estero, o se ne vanno molto prima dai banchi di scuola, magari già frustrati e ingrigiti dall’aria mesta che si respira: la disoccupazione, la crisi. Meglio mettersi al riparo, finché si può. Mammoni o bamboccioni. Ah no, questa è un’altra storia. O il proseguo della stessa? (MB)