In una lunghissima intervista pubblicata su Artnet, Christine Macel svela la Biennale. La sua biennale. Quella manifestazione che dovrebbe tracciare un solco preciso di come vanno “le cose” dell’arte ogni due anni, e che – che lo si voglia o no – è specchio dei propri tempi e non solo del pensiero del direttore.
Lo abbiamo visto con Documenta, cinque anni fa, che è poi un’altra manifestazione che ancora più della Biennale è chiamata a fare “il punto” della situazione. Dopo la crisi Carolyn Christov-Bakargiev aveva costruito un universo denso quanto rizomatico, infinito. Ma la crisi dell’Europa, in realtà , mai è passata. E se ieri si parlava maggiormente di economia, oggi c’è anche il “lato umano”: quello delle divisioni, dei muri, di chi entra e di chi no, degli attentati, di un imbarazzo generale, e del chinare la testa ai tempi bui. E così la nuova Documenta, ad Atene, non è stata in grado di parlare. Solo un caso? O un concorso di colpa sociale?
«Il populismo è un pericolo reale, in particolare per l’arte e la cultura. Questo contesto storico mi ha portato a scegliere di orientare la Biennale verso l’arte e gli artisti, in quanto credo che l’arte sia una resistenza di per sé, un’alternativa. E non importa se l’arte affronta questioni politiche direttamente o fa commenti sulla situazione. L’arte non è mai stata un messaggio, è una polifonia di voci», afferma Macel alla prima domanda di Andrew Goldstein, e continua: «Per me resiste il vuoto, che non deve essere scambiato per la vacuità ».
Quasi zen Macel, che elenca autori e artisti, da Zola a Robert Ryman a Deleuze, dall’Odio per gli indifferenti di Gramsci, fino ad Hannah Arendt.
E poi? E poi “arte come ultimo antidoto” contro l’individualismo imperante raggiunto, ma a favore dell’individualità che forma la collettività , anche se «L’arte non aiuta niente e non cambia nulla. Ma cambia anche tutto: è una “aporia”, come la libertà . Per me, l’arte è il luogo dove si può reinventare il mondo, il posto è assolutamente necessario per farci pienamente umani».
E poi c’è il concetto dell’esperienza, che secondo Macel, è sempre una possibilità di trasformazione. Ma c’è anche un altro genere di trasformazione: quella che vive il momento culturale in cui viviamo, fatto sia di nuove e infinite possibilità di conoscenza, grazie anche i media, e allo stesso tempo un livellamento culturale non indifferente. «La mia unica conclusione sarebbe quello di non smettere mai di studiare, lavorare, leggere, ascoltare».
Sull’idea dei transpadiglioni? Giocare, con un po’ di ironia. Specialmente perché riproducono la geopolitica del mondo, «ma non si può pensare di sbarazzarsi di loro quando il loro numero è aumentato, a partire dagli anni’90, arrivando alle 85 partecipazioni nazionali di quest’anno».
Modelli di ispirazione? Artisti e qualsiasi altra cosa che nutre: libri, musica, natura. E poi un’ultima citazione per il compianto John Berger, che era solito dire che la speranza è già un’energia che cambia tutta la prospettiva. Romantica biennale, viene da dire. Vedremo. (MB)
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I progetti curatoriali in queste ultime edizioni di Documenta sono stati molto presuntuosi nel voler rivelare aspetti che in realtĂ poco conoscono e che spesso fraintendono per una mancanza di reale percezione della realtĂ sociale.
Il progetto della prossima Biennale mi pare più tranquillo nel voler mettere in risalto l'arte in ciò che essa è espressione creativa, lasciando da parte le inutili filippiche para social-culturali.
La bellezza della varietà di eventi e di espressioni è poi una carta vincente che la Biennale, con i tantissimi padiglioni, per fortuna ha conservato lasciando la libertà di espressione (quella vera, che non decide a priori che cosa è come troppo spesso fanno i curatori che agiscono a volte più per "interessi" (relazionali /economici) che per una vera capacità culturale).