Categorie: Il fatto

Brexit dell’arte?

di - 30 Aprile 2016
«Siamo molto legati all’Europa grazie alle mostre che facciamo e al modo di lavorare. Lavoriamo a stretto contatto con i nostri omologhi in Francia, Spagna, Italia, Germania. E sono sicuro che, qualunque cosa accada continuerà così. […] Non posso negare che io sia fortemente europeo, e la National Gallery è esattamente di questo: siamo alla ricerca di connessioni, non di differenze. Ci sono tante cose comuni a tutti noi». Non è un profeta e nemmeno un politologo, ma il direttore della National Gallery di Londra, Gabriele Finaldi, interpellato dal Guardian sulla questione Brexit.
In attesa del referendum del prossimo 23 giugno, insomma, si raccolgono opinioni su uno dei temi più scottanti degli ultimi anni, da quando – in fondo – è nata quell’Europa unità nella quale la Gran Bretagna ha sempre tenuto un piede dentro e uno fuori.
E se Londra è un conto, l’Inghilterra profonda un altro, con un bel parterre di città euroscettiche dove l’Ukip sta gettando i semi del no.
La colpa si dà ai migranti, e non a quelli che vengono dall’Africa o dal Medioriente, ma ad altri europei, come ad esempio i polacchi, “etnia” decisamente forte a un centinaio di chilometri da Londra, nell’area della città di Peterborough. E la gestione di tutto il pandemonio delle ondate migratorie, da queste parti, vogliono “gestirlo meglio che in Europa”. E secondo i sondaggi, pare che la metà degli elettori britannici considerino l’immigrazione come il fattore determinante per il voto che deciderà le sorti del Regno Unito.
Anche Finaldi è cresciuto a Londra con un padre italiano e madre di origine polacca. Da queste parti i geni mixati hanno portato fortuna. E che cosa porterà, non solo al mondo politico ed economico ma anche a quello dell’arte, questa famigerata Brexit, ammesso che trovi “accoglimento” tra gli inglesi? (MB)

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