03 febbraio 2016

Centri (d’arte) commerciali

 
Fenomeno in espansione quello dei centri commerciali come "gallerie" d'arte. Effetto di "reversione" del museo nella vita quotidiana o, meglio, di fruizione utilizzata come esca per le casse?

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Ai Weiwei fa la mostra nel centro commerciale di Parigi; a Shanghai si fa arte (in questo momento con Dalì) nel terzo piano interrato del K11 (nato da un’idea del miliardario Adrian Cheng). E poi Poznan, Beirut (grazie all’intraprendenza del magnate Toni Salamé, che insieme al lusso metterà in scena la sua collezione), nell’Oxfordshire britannico.
Le idee di Cheng, per quanto riguarda il Sol Levante, sono chiare: «Entrare in un cubo bianco non è solo intimidatorio, ma si tratta di una esperienza “estera” basata su un concetto che non è radicato nella psiche della maggior parte dei cinesi, e così abbiamo portato l’arte in un ambiente che già conoscono. Con il nostro pubblico locale stiamo osservando che spesso consumano arte tanto quanto si consumano i prodotti del centro commerciale».
Insomma, pare tutto calibrato per una questione di timidezza. Ma come la mettiamo se, a sua volta, l’arte è “timida”? Ovviamente si tratta di un eufemismo, dovuto forse a quell’approccio “sacro” che dell’arte abbiamo in occidente, e che è ben identificato dalla stessa etimologia della parola “sacer”, ovvero separato. 
Qui, invece, rischia di unirsi alla vita (come invocato dalle avanguardie, in senso lato), anche perché Cheng ha promesso di aprire prossimamente un’altra ventina di questi centri commerciali, con arte annessa.  
Sapete su cosa si lavora, anche? Sul cosiddetto “Tempo di sosta”, ovvero quella durata che consente di fare acquisti in questi nuovi templi: quattro ore di media. Con l’offerta artistica si spera, così, di prolungare questo arco di tempo. E aumentare la cassa. Chissà, magari ha ragione chi dice che le stesse persone che vanno a Frieze possono essere invogliate dallo spendere in un supermercato “artsy”. Che dite? (MB)

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