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06
novembre 2015
Non è stato semplicemente un antropologo René Girard, ma personaggio che incarna – e incarnerà ancora per parecchio tempo – un’aura mitica, come lo sono state le sue teorie. Provocatore, reazionario a suo modo, le scienze umane gli devono l’onore di aver gettato luci sulla psiche, anzi, ombre sul nostro “desiderare”, sui modelli da cui abbiamo appreso, e di aver sviluppato la coscienza di un “menage a trois” tra oggetto, modello e oggetto: il modello, per Girard, è il mediatore, colui che vogliamo imitare; l’oggetto è l’altro da noi, il soggetto – noi stessi – una piccola entità che brucia della mancanza di libertà, di autonomia, in quella teoria definita proprio del “desiderio mimetico”.
Complesso Girard, capace di raccontare l’antropologia come modello universale dei tempi, cattolico e affascinato dalla relazione inscindibile tra uomo e sacro, in quella violenza nata dalla rivalità con l’altro-mediatore, dovuta al desiderio di possedere quello che ha, come ricordano due testi base del suo pensiero: Il capro espiatorio, del ’67, e La violenza e il sacro, del ’72, dove questa strana forma di paganesimo si rivela con il Cristianesimo e i sacrifici richiesti per la salvezza.
“Chi mi attacca è contro la mia teoria perché è allo stesso tempo una teoria d’avanguardia e una teoria cristiana. Quelli d’avanguardia sono anti-cristiani e molti cristiani sono anti-avanguardia. Anche i cristiani sono stati molto diffidenti nei miei confronti”, era una delle sue massime.
Ma lui, da bravo francese (nato ad Avignone nel 1923) e di casa in America dagli anni ’50, oltre al germe del pensiero della differenza, e dell’essenza, probabilmente aveva anche forte un illuminismo serrato, e poco ortodosso.
Ciao René, le tue teorie ci hanno raccontato tanto di noi, anche se nessuno lo saprà mai fino in fondo. (MB)