12 gennaio 2015

Dopo Charlie, chi marcia per la Nigeria?

 
Non sminuiamo i fatti di Parigi, ma all’indomani di Charlie le vittime dell’integralismo continuano, ininterrottamente, in altre parti del mondo. Povere, malate, e per questo dimenticate o, peggio, ignorate. Ma se davvero “siamo Charlie”, forse dovremo farci i conti

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Parigi ieri è stata la capitale della pace nel mondo. Peccato però che il mondo non sia solo Europa e Stati Uniti d’America, anche se fa tanto comodo pensarlo.  Ed è bello sentirsi uniti, parte di una comunità “globale” che soffre, piange, si dispera per i suoi morti e per un attacco che, certamente, più vile non poteva essere. Ma c’è anche un altro mondo altrettanto globale, che però ha un problemino. É in serie B, anzi, addirittura in C o C2, e per certi versi in costante retrocessione, mentre la serie A continua a ingrassare e ad avere i naturali rigurgiti dovuti a una forma ormai sfiancata. Sì, smettiamo con le metafore e parliamo della Nigeria, dove anche ieri si sono continuate le atrocità che, probabilmente, portano la mano del gruppo jihadista  sunnita Boko Haram. Il teatro della nuova vicenda di sangue islamista è il mercato di Potiskum, dove due bambine di 10 anni sono state fatte esplodere (difficile pensare il contrario) in mezzo alla folla. La stessa scena si era ripetuta il giorno prima, da un’altra piccola vittima che ha provocato la morte di una ventina di persone a Maiduguri, capitale dello Stato di Borno. E ora certamente siamo tutti Charlie, ora anche l’Europa si scopre un po’ fobica come gli Stati Uniti all’indomani dell’11 settembre, ma a parte questa follia decisamente poco ordinaria, quanto veramente siamo in pericolo? Obiettivamente, pensiamoci. 
Certo, ribadiamolo, è fuori discussione che episodi del genere non debbano succedere di nuovo, così come è fuori discussione che vi siano studenti che annunciano stragi sui social network e poi le compiono davvero, in tante scuole di tanti stati della civile America che si è raccolta insieme alla Francia. 
Quel che è vero, senza mezzi termini e senza false morali, è che noi siamo più importanti degli altri, Più uguali degli altri, come i maiali della Fattoria degli animali di Orwell. Noi abbiamo le banche, le borse, i soldi, lo spread, il lavoro e anche la disoccupazione, la “cultura”, le innovazioni e la “bellezza”. E in Africa, invece? Sì, le foreste e gli elefanti e un paio di piramidi, ma soprattutto la povertà, la fame, le malattie tipo Ebola, percentuali spaventose di contagi Hiv, mortalità infantile elevatissima e chi più ne ha più ne metta. Un inferno insomma, a cui si aggiunge l’altro inferno delle guerre, come era stato con gli Hutu e i Tutsi, o quelle attuali a sfondo religioso. Che lì si, provocano la vera “Soumission” dell’altro. Che non è felice, o comico, come nel romanzo di Houellebecq, ma che se rifiuta il regime totalitario e prova a scappare viene semplicemente ucciso. Uno dei sopravvissuti alla strage della scorsa settimana a Baqa ha raccontato ai media nigeriani: «Abbiamo corso per giorni e visto cadaveri, specialmente sulle isole del lago Ciad: sono stati sterminati come insetti. Il massacro è andato avanti per giorni, i miliziani sono in agguato lungo le acque e, quando vedono passare una barca di persone che fuggono, aprono il fuoco». 
Chissà, magari ci sbagliamo e la prossima settimana a Parigi, Roma o New York qualcuno si muoverà per una marcia “Nous sommes tous nigériene”, o chissà, ci si potrà inventare una missione di pace per cercare di contrastare un fenomeno  che colpisce soprattutto fuori dalla comunità europea, in maniera continuativa, e mietendo centinaia di vittime di cui non frega nulla a nessuno, se non a qualche sparuta organizzazione umanitaria più o meno famosa. Poi si sa, i morti dell’Africa, come dell’Oceania o di quella faglia nera che corre tra Stati Uniti e Messico, solo per citare una zona incriminata e non per motivi religiosi, sono meno importanti. Non ci piove, o no?
La sfilata di oggi a Parigi è stata incredibile, in qualche modo una splendida dimostrazione che esistono (per casa propria e il proprio vicinato) parole come “unione”, “solidarietà”, “comunità”. Per chi non fa parte del quartiere è già difficile che le porte dell’informazione si aprano, figuriamoci quelle dell’aiuto. Eppure, se vogliamo dare davvero credito a coloro che hanno scritto “Ne pas en mon nom”, bisognerebbe cercare di rendersi disponibili anche per qualche fatto che non avviene solo nel nostro giardino. Visto che vogliamo essere sempre così globali. (MB)

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