03 febbraio 2015

Il Regno dell’Arte

 
Il successo di una mostra si determina dal numero di ingressi? Vecchia storia, ma sempre attuale. E mai come oggi alla ribalta. Ricordando i fasti dell'auditel televisivo e la ricerca di nuovi like. Sempre “democraticamente”

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La giornata di fuoco dei numeri si apre con Milano: 340mila visitatori per Chagall, la seconda mostra più visitata dell’anno, che nell’ultimo giorno ha visto sotto il sole una fila quasi chilometrica, arrivata in piazza Fontana – 500 metri buoni dall’ingresso di Palazzo Reale. Meglio di lui, nel 2014, solo Picasso, ma si sa, con il genio spagnolo non si compete. 
Lo sanno bene a Firenze, che solo qualche giorno fa, in occasione della chiusura della mostra a Palazzo Strozzi, si sono “festeggiati” i 190mila ingressi. Segno che anche mostre non troppo pregevoli (non è stato il caso di Chagall) fanno il pieno di pubblico. Lo sa bene Marco Goldin e la sua “Linea d’Ombra”, e lo hanno saputo a Bologna con la mostra sulla Ragazza con l’orecchino di perla. Ma andiamo avanti: “Il cibo nell’arte”, mostra bresciana in odore di Expo annuncia 3mila visitatori già nella prima settimana di apertura, figuriamoci nell’ultima; poi arriva da Roma l’Assessore Marinelli e la carica degli 11mila nei Musei Civici per la domenica gratuita per i residenti e anche nel profondo nord, a Domodossola, si annuncia che chiude a quota 10mila visite la mostra dedicata alla Collezione Poscio. 
C’è poco da fare: anche il sistema dell’arte (delle biglietterie?) vive di una folle ansia da prestazione, esattamente come avviene rispetto agli indici di benessere del popolo italiano ed europeo: più si alzano gli standard più si cerca di avvicinarsi alle vette del business, del lusso, del denaro. E il pubblico vuole salire in alto con la storia e con l’arte, anche se si tratta di specchietti per le allodole. 
Chiaro che i grandi nomi fanno da richiamo per gli ingressi in quelli che ormai sono a turno “megastore” o cattedrali di un nuovo culto, i musei, ma c’è anche il rito collettivo che porta il pubblico alla voglia di mettersi in fila per poi vedere assolutamente nulla in sale dal clima tropicale e affollate come un formicaio. Fa parte di quella vastissima moda dell’esserci, in un campo – l’arte – che grazie alla comunicazione non solo è diventato ad appannaggio di tutti, ma che vive riflessa nella sua nuova vita, svuotata delle problematiche che l’opera porta sempre con sé, nei social, nell’ormai invecchiato web, dentro smartphone e app. Certo, probabilmente sempre meglio fare una fila per avvicinarsi a un dipinto piuttosto che alla cassa di un ipermercato, ma il fine è il medesimo: consumare. 
Di quel che resta alla fine di un percorso di un grande “mostrone” ce ne siamo occupati spesso, e poi in fondo è affare di chi sceglie di prestarsi al gioco, ma la percezione che si ha dall’esterno è che si sia in presenza di una dinamica televisiva: quanti spettatori realmente guardano, e quanto è ampia la percentuale di “share”? Quanti davvero si fermano a leggere, guardare, “imparare” e quanti invece si focalizzano su un mostra con lo stesso atteggiamento con cui si dribblano carrelli nelle corsie o sconosciuti nelle vie dello shopping? Ma l’arte di questi tempi è diventata via via sempre più democratica e alla portata. Come un selfie dando le spalle alla Gioconda se siete parte di una ricca gang di rapper, o un “autoritratto” specchiandovi nel blu di Klein
Bisogna scegliere quel che è alla propria portata, giusto? Allora sotto con Picasso, Frida, Chagall, Mirò, Matisse, Ragazze con l’orecchino e chi più ne ha più ne metta, no? E i musei – e le Amministrazioni – dichiareranno il Regno dell’Arte. 

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