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Sono state ribattezzate – diplomaticamente e politicamente correttamente – “comfort women”: nella realtà sono state invece, vere e proprie schiave sessuali per l’esercito giapponese, raccolte in Corea del Sud durante l’ultimo conflitto mondiale.
Donne delle quali il Giappone – appunto – ha infangato la memoria, continuando a farlo, anche ora dopo settant’anni passati. Offesi dalla statua provvisoria esposta davanti al consolato giapponese di Busan, a ricordarne la vergogna e l’orrore, i giapponesi hanno richiamato l’ambasciatore a Seul. E tra i due Paesi è riscoppiato un caso diplomatico che neppure l’incubo atomico del prossimo test di Kim Jong-un, leader della Corea del Nord, riesce a diluire.
Da un lato ci sono insomma gli “eroi nazionali” nipponici, rimasti tali solo per gli abitanti del Paese del Sol Levante, criminali per il resto del mondo, dall’altro queste figure “minori” della cronaca nera della storia che grazie a una statua, in barba a chi predica l’inutilità dei monumenti, riescono ancora a incendiare gli animi. Sintomo di una storia non ancora digerita, e che qualcuno vorrebbe ridurre alla sordina.
Insomma, non si parla solo di “pentimento” non avvenuto, ma anche della volontà – sempreverde – di revisionismo. E così, dopo la visita della ministra della Difesa giapponese, Tomomi Inada, nelle stesse ore della visita del premier alle Hawaii, al santuario dove sono onorati gli eroi di guerra giapponesi, appunto, un gruppo di manifestanti ha eretto davanti al consolato di Busan una copia della “ragazza di bronzo” che sta di fronte all’ambasciata giapponese a Seul e tante altre sono spuntate nel Paese. In barba a un risarcimento milionario già pattuito: la storia ancora una volta si rivolta. E a rimetterci è la memoria delle ragazze. (MB)