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Sotto sotto pare che il motivo sia perché è nato da genitori palestinesi. Che sia musulmano, e che abbia smentito le accuse, in Arabia Saudita pare che poco importi. La storia dell’artista, curatore e poeta Ashraf Fayadh, è l’ultimo orrore che arriva in fatto di libertà di espressione, in un’epoca in cui da una parte all’altra dell’Occidente e del Medio Oriente pare essersi persa qualsiasi “bussola” civile.
Certo, che i vecchi concetti contro infedeli, traditori e diversi vigano ancora in buona parte del vicino Est è risaputo, come in forme differenti sopravvivono latenti – ma nemmeno troppo – in Occidente.
Che colpa avrebbe però, oltre alla sua provenienza, Fayadh? L’aver promosso l’ateismo con la sua antologia Instructions within (2008), di aver avuto relazioni illecite, di aver mancato di rispetto al profeta Maometto e di aver minacciato la moralità saudita.
E così, tre giorni fa, la condanna a morte.
Poco importa se la sua carriera lo vede come uno dei rappresentanti della lega di artisti anglo-sauditi Edge of Arabia, vera istituzione di cui spesso abbiamo parlato, e poco importa anche che sia stato tra i curatori del progetto “Rhizoma” alla Biennale di Venezia nel 2013. Si sa, la legge è uguale per tutti. E alcune leggi sono più uguali delle altre, a quanto pare. E meno discutibili.
Un bel nuovo tonfo per l’intero mondo della cultura e anche della politica internazionale, che segue le storie che ben conosciamo (anche se di condanne a morte non si tratta) di Tania Bruguera, Ai Weiwei, delle Pussy Riot o Petr Pavlenskji, solo per citarne alcuni tra i più noti. Che fare? (MB)