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Si può, e si deve, parlare di vere e proprie misure draconiane, data la severità. Sono le condizioni che gli uffici governativi egiziani hanno dettato al no profit The Townhouse Gallery, al Cairo, chiuso per motivi mai ben spiegati lo scorso dicembre.
Come vi avevamo raccontato, l’associazione che si occupa di organizzare mostre, talks e soprattutto residenze e scambi con altri artisti dell’area del Medio Oriente e del Nord Africa, è (o era) uno dei più significativi spazi per l’arte contemporanea dell’area, finché i funzionari dell’Autorità della Censura, dell’Agenzia delle Entrate, per la Sicurezza Nazionale, e l’ufficio locale del Ministero del Lavoro non hanno messo i sigilli, sequestrano anche computer personali dei lavoratori della galleria.
Ora lo spazio ha riaperto, cercando di superare le nuove autorizzazioni e di adempiere alle regole chieste dallo Stato e nonostante questo “accordo” sulla pagina facebook di Townhouse è stato messo in chiaro che – viste le difficoltà a ricominciare in maniera differente – non si possono fare programmi per il futuro.
Ma su cosa dovranno essere informate le varie “agenzie”? Per esempio sugli argomenti dei workshop, sulle discussioni che si terranno in ultima analisi, sulla programmazione di musica, spettacoli, conferenze, e anche delle mostre “visive”.
Il comune del Cairo ha anche chiesto modifiche dei piani di sicurezza nell’ambiente, tra cui l’installazione di impianti antincendio a pioggia in tutte e cinque le aree della galleria. Un’operazione il cui costo, hanno fatto sapere gli interessati, sarebbe talmente alto da garantire le serrande abbassate. Un delitto senza colpevole, solo perché “la legge è uguale per tutti”, no? Anche per la curatrice libanese Christine Tohme che si vede negare il rinnovo del passaporto, o per il centro d’arte SALT di Beyoglu, a Istanbul. Chiuso. (MB)