Nel 2003 è nato Supportico Lopez a Napoli, oggi tra varie vicissitudini e cambiamenti siete arrivati ad un primo traguardo di 10 anni. Gigiotto ci racconti quale è stato l’inizio?
«L’inizio è figlio di un’emergenza, la necessità, come curatore, di avere spazi di programmazione indipendenti da gallerie o dai rigidi monoliti istituzionali. Nasce dopo il mio trasferimento da Milano a Napoli, alla fine del 2002. E parte con la collaborazione di due artisti con i quali all’epoca condividevo tante cose, Marcello Simeone e Mariangela Levita. Avvertivo forte la necessità di strutturare un programma che comprendesse Napoli e la sua naturale vocazione internazionale. Poi è arrivata Stefania Palumbo e la musica è aumentata di volume, il livello di professionalità pure e la voglia di vivere contesti e dinamiche nuove non riuscivamo più a controllarla. Napoli subiva i torti di alcune pseudo figure istituzionali che ne violentavano la sua autorità culturale e tentavano in tutti i modi di mortificarne l’autonomia. Noi abbiamo quindi pensato che era meglio lasciare sole certe realtà ed aspettarne il tramonto».
Nel 2008 siete arrivati a Berlino aprendo uno spazio a Kreuzberg per poi da meno di un anno trasferirvi a Schoeneberg, abbandonando uno spazio dal “carattere underground” per uno più istituzionale. Esiste in questo momento una situazione underground a Berlino e qual è? Per contro, esiste realmente una aggregazione tra i diversi spazi espositivi e che giovamenti porta?
«Underground o non underground, crediamo che la cosa più importante sia mantenere solido il contatto con la struttura progettuale e di ricerca che caratterizza ciò che fai. Noi siamo e resteremo sempre dei curatori prestati all’attività gestionale e manageriale della galleria. Anche se amiamo molto ciò che stiamo facendo e come lo stiamo facendo. Per quanto riguarda Kreuzberg prima e Schoeneberg poi, l’elemento principale è che Kreuzberg sta cambiando troppo velocemente e il suo spirito antagonista e borderline sta trasformandosi in attitudine borghese per famiglie che troppo spesso chiamano la polizia lamentando schiamazzi al minimo segnale di aggregazione, culturale e non. Schoneberg rappresenta il lato storicamente connesso con la musica, da David Bowie agli Einsturzende Neubauten e sempre più sta ritirando fuori la sua anima sperimentale e metropolitana. Douglas Gordon poi ci ha proposto di prendere uno spazio nel complesso di sua proprietà, dove ha lo studio. Il clima culturale che si respira lì è fonte di grande ispirazione».
Com’è cambiato il rapporto con gli artisti in questo nuovo spazio di Berlino e con il pubblico?
«Non è cambiato, si è consolidato aggiungendo ulteriori elementi di scambio e discussione».
Siete riusciti nell’impresa da soli o avete dei sostenitori? Quando si parla di Supportico Lopez spesso compaiono nomi come Peppe Morra, Fondazione Morra Greco ecc ecc
«No, non abbiamo sostenitori. Se non i collezionisti che seguono il nostro lavoro. Niente di fisso o prestabilito. Non veniamo da famiglie ricche e tutto ciò che produciamo è solo il frutto del nostro impegno. Per quanto concerne Peppe Morra la collaborazione riguarda Henri Chopin. Peppe ci ha messo a disposizione materiale sia umano che professionale, lui e Teresa Carnevale sono persone straordinarie. Lo studio Morra (oggi Fondazione Morra) ha scritto pagine fondamentali nella storia dell’arte contemporanea degli ultimi 40 anni. E noi siamo onorati di poter collaborare con loro e di poter lavorare con il loro materiale d’archivio. Maurizio Morra Greco invece è stato il mio riferimento in termini di formazione curatoriale e di mercato. Sono stato curatore della sua collezione per circa sette anni. Ancora collaboriamo con progetti e mostre. Segue, collezionando, in maniera alterna, alcuni dei nostri artisti».
Uno sguardo internazionale ha subito caratterizzato le vostre scelte. Quali sono gli artisti che seguite fin dall’esordio, e chi è subentrato nello spostamento a Berlino?
«Supportico Lopez fino al 2009 non era una galleria quindi non rappresentava degli artisti in particolare. La lista attuale degli artisti e ciò che rappresenta il nostro spostamento a Berlino. Non ci poniamo problemi di tipo geografico, seguiamo quello che ci interessa ed il nostro orizzonte cambia spesso. Ci sono molti artisti italiani che stanno facendo un lavoro di qualità in questo momento. Ci si è scrollata di dosso quella sorta di sfiga che tanto ha caratterizzato il fare artistico di tanti negli ultimi 15 anni in Italia. Tra gli artisti che seguiamo sin dagli esordi ci sono certamente Michael Dean, Giulio Delvè, Danilo Correale».
Quanto le scelte economiche di un gallerista indirizzano quelle professionali?
«L’arte, se è di qualità, la si riesce a vendere, sempre. Noi non siamo condizionati dal mercato e credo che dalle mostre che facciamo sia piuttosto chiaro. Sono quasi sempre progetti abbastanza ampi e complessi».
Gigiotto Del Vecchio e Stefania Palumbo, siete una famiglia ma anche una “squadra”: lavorare e vivere insieme, è un valore aggiunto alla passione per l’arte? Quali sono le difficoltà invece?
«Certamente il rischio è di non smettere mai di lavorare. Questa è una delle difficoltà, ma forse anche il valore aggiunto».
Molti galleristi ed artisti sono arrivati a Berlino attratti da economie più possibili. Fantasie di “un’isola che non c’è”, oppure?
«Berlino ha attraversato avanguardie, difficoltà, contraddizioni, popolarità, impopolarità. E così è ancora oggi…, resta un posto unico ed estremamente generoso. A volte e’ estremamente antipatica, ma finisci sempre per perdonarla…. »
Siete una galleria a tutti gli effetti, lo confermano anche le vostre assidue partecipazioni a fiere nazionali ed internazionali, atipica e vitalistica però per diversi motivi: gestita da due critici-curatori, con un’atmosfera sempre brillante e positiva in controtendenza allo stato depressivo dovuto alla crisi. Quali sono le caratteristiche che vi contraddistinguono dal sistema?
«Certamente la fiducia nel progetto che abbiamo stabilito. Non esiste una formula se non quella dell’articolazione del processo in direzione del rigore e della qualità della ricerca. I livelli intellettuali che derivano dal nostro essere curatori ci danno certamente delle possibilità diverse, sia di analisi che di frequentazione del sistema dell’arte. Le fiere, che stiamo iniziando a selezionare, rappresentano non il demonio, come velocemente e con una certa superficialità spesso si ascolta o legge – ma momenti di grande importanza per ciò che riguarda lo scambio e la promozione del proprio progetto. »
Un gallerista e un critico a cui vi ispirate? Un periodo storico artistico in cui avreste voluto operare?
«I nostri riferimenti sono ampi. Tra le gallerie certamente American Fine Arts di New York; il progetto di Colin De Land. Immaginiamo il nostro ufficio una sorta di contesto produttivo positivo, una factory di idee e costruzione culturale. Ognuno dei nostri collaboratori viene coinvolto e si tenta sempre di strutturare assieme e di discutere produttivamente sulla gestione e sul programma. Tra le figure curatoriali certamente il riferimento principale è Harald Szeemann e su un versante più istituzionale Kaspar Koenig è il personaggio più importante e per noi una realtà di scambio quotidiano. Ha lo studio di fronte alla nostra galleria. Certo aver vissuto a New York negli anni 70 deve essere stato particolarmente emozionante. Il processo che si era attivato sembrava, ed e’ stato, inarrestabile. Ha prodotto e formato coscienze e caratterizzato il fare dell’arte contemporanea… »
Eravate nella selezione del Gallery Weekend a Berlino con Henri Chopin e siete stati a New York per Frieze Art Fair. Chi avete presentato e perché tale scelta? Mi raccontate qualcosa su questa tanto chiacchierata fiera d’oltreoceano?
«A Frieze la sezione cui abbiamo partecipato è Frame. Un settore in cui viene presentato un solo artista. Il nome da noi proposto è stato J Parker Valentine, artista americana che lavora sul disegno, l’esercizio del gesto quale positiva ossessione. Il disegno quale inizio di un progetto, punto di partenza per uno sviluppo successivo ben più ampio ed articolato.
Per noi è stato un piacere essere stati ammessi ad una sezione di una tale importanza. Frieze, con Art Basel è uno degli appuntamenti fieristici più ambiti e di successo. New York avendo perso la sua fiera, (The Armory Show è in una posizione di totale sofferenza) sembra che abbia attraverso Frieze colmato il vuoto. New York non può non avere una fiera di livello internazionale e con una selezione di qualità forte alla base… »
Quant’è importante la nazionalità nel mondo dell’arte? E quanto si può ancora racchiudere le esperienze personali e lavorative nei confini di una Nazione nel mondo globalizzato in cui viviamo?
«I confini sono, meno male, tutti completamente abbattuti, almeno, questa è la nostra sensazione. Di ciò ne siamo assolutamente coscienti e felici…. »
Quanto la notorietà e l’attenzione da parte dei mass media influenza il buon esito del lavoro di un curatore?
«Non crediamo che nella sfera culturale la notorietà debba influenzare il lavoro del curatore. La sfera culturale dovrebbe essere al riparo da tale possibilità. Almeno in teoria. Poi nella pratica spesso si assiste a distorsioni e ridicolizzazioni delle scelte e della proposta. Ma mai da parte di figure ed operatori culturali seri. Blockbuster è sempre in agguato, anche nell’arte. Oggi in particolar modo… »
Possono realmente Gallerie importanti condizionare l’andamento della carriera di un artista? C’è chi sostiene che le scelte dell’ultima Documenta a Kassel e della prossima Biennale di Venezia siano state anche dettate dalla voce di poche e potenti gallerie, che ne pensate?
«In un momento di crisi economica quale quello in cui noi siamo, il privato è molto più potente del pubblico. E spesso le partecipazioni degli artisti sono finanziate dalle gallerie che li rappresentano. In una certa dimensione i direttori artistici devono tenerne conto… »
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