I nati negli anni ’80 sono cresciuti con il mito dell’Erasmus: quei sei mesi, o un anno, che permettevano di allontanarsi un po’ dal proprio recinto, per vedere com’era l’Europa. Non importa se era Finlandia o Repubblica Ceca, mentre tutti sognavano la Spagna e, per alcuni fortunati, si aprivano le porte di quella che oggi sembra la chiusissima Inghilterra: il progetto Erasmus è stato una sorta di ideale “Grand Tour” per imparare una nuova lingua, per costruire relazioni, per innamorarsi, per crescere.
E allora? E allora bene che i Ministri Franceschini, Azoulay e Böhmer abbiano sottoscritto, a Roma, la proposta al Commissario Europeo Tibor Navracsics e alla Presidente della Commissione Cultura del Parlamento Europeo Petra  Kammerevert di introdurre il programma “Mobility in Culture” tra le nuove oppurtunità che l’Unione dovrebbe dare ai propri figlioli. “Il progetto – si legge nel documento – è inteso a facilitare scambi tra giovani artisti e professionisti della cultura e prevede il sostegno a stage e programmi di residenza in ambito europeo nel settore artistico, culturale e creativo. Il nuovo programma, rifacendosi alla positiva esperienza di Erasmus, permetterebbe a molti giovani europei di sviluppare esperienze e capacità attraverso il confronto con le istituzioni culturali, sia private che pubbliche, di altri Stati membri”.
Già nell’arte, nella danza, nel cinema, nel teatro, spesso ci si impegna a trovare percorsi fuori dal nostro Paese, e un incentivo reale (anche economicamente parlando) sarebbe assolutamente propositivo. Forse anche i nostri artisti, di cui si rimarca costantemente l’accasamento sotto il cielo del Belpaese, potrebbero trarne un giovamento futuro. Forse anche il nostro stesso vacillante sistema di promozione del contemporaneo. Lo diciamo da molto tempo: “Attraverso l’esperienza nel mondo del teatro, del cinema, dei musei, dei centri di produzione culturale di altri Paesi europei i giovani artisti potranno confrontarsi con un contesto ampio, condividendo idee, ispirazioni e progetti creativi”. Se ora ci pensa anche il Ministero allora, forse, c’è speranza. (MB)