13 luglio 2015

Riscatto via etere

 
Si chiama "Radio Ghetto", e dietro il mixer non ci sono dj ma braccianti agricoli africani da tempo sfruttati nelle campagne del foggiano. Un'uscita d'emergenza sull'arte, per raccontare il presente

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Le trasmissioni riprenderanno il 28 luglio, anche quest’estate. Perché l’esperienza di “Radio Ghetto” non è nuova, ma confinata un poco agli stessi abitanti del ghetto (almeno finora), che poi è Rignano Garganico, in provincia di Foggia.
Qui da anni vivono braccianti immigrati africani, che tutto il giorno lavorano nei campi e a turno si mettono dietro i microfoni di una redazione-baracca (come le “case” dove vivono) e tentano di raccontare ai loro “colleghi” e non solo la situazione attuale della loro condizione e, di riflesso, anche del nostro Paese. 
Eppure, da questa immensa bidonville italiana, da fine mese si raggiungeranno gli ascoltatori di tutta l’Italia (grazie a Radio Popolare e ad un network di radio locali) e di un pezzetto d’Africa, specialmente in quei Paesi da dove si fugge per venire a cercare fortuna al “nord”. Mentre poi ci si ritrova al sud, invece, sfruttati, sottopagati e schiacciati dal caporalato, con la sede delle trasmissioni andata casualmente a fuoco due volte e una serie di intimidazioni quotidiane.  
E invece stavolta si andrà in onda, per 12 ore al giorno e per un mese, in lingua wolof del Senegal e in bambarà del Mali, meno frequentemente in inglese, francese e italiano, per parlare ai 700mila lavoratori immigrati regolari e irregolari che vivono in Italia, e per gli stessi abitanti della baraccopoli (oltre mille e 500), che viene descritta come un luogo assurdo, ma che vive di un grandioso senso di comunità, e riesce a funzionare con un suo perfetto, pacifico equilibrio, come riporta Matteo Macor dalle pagine di Repubblica.
Un esperimento diventato una necessità, che hai voglia a definirlo una “scultura sociale”, “arte partecipativa” et similia, ma che è una vera finestra sulla libertà per chi vive senza dignità alcuna, in condizioni al limite dell’umano e che, anche il nostro civile stato, fa finta di non vedere. 
Via radio si informano i nuovi arrivati su leggi e diritti italiani, si parla dello sfruttamento lavorativo e si socializza. Si fa gruppo, ci si sente meno soli. Potere della condivisione e della buona musica, della voglia di costruirsi un futuro che da queste parti è un miraggio come un’oasi in un deserto, o in un campo di pomodori in pieno sole, a luglio. 
L’unica cosa da fare, almeno per cominciare? Starli a sentire, e se proprio non si comprenderà l’africano, saranno le canzoni a parlare. E il riscatto, anche se ancora lontano, passerà di sicuro da queste parti. (MB)

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