«L’autentica street art è sberleffo ai luoghi della cultura, è critica guerrigliera al paesaggio urbano degradato e mercificato. Tolti dal contesto per il quale erano stati pensati, trasferiti nel museo, i graffiti non sono più quel che erano: non più di quanto un fossile di ammonite sia ancora il cefalopode guizzante nei mari del Giurassico». La parole di Michele Smargiassi, giornalista di Repubblica, apparse sul suo blog Fotocrazia qualche tempo fa, tornano alla mente e d’attualità all’indomani di un recente “caso” di vera e propria street art che ha fatto il giro del mondo. Non ci troviamo, pertanto, né tra le rassicuranti mura di un museo, né tra gli stand affollati di una fiera d’arte o tra le sale compite di una casa d’aste. No, questa volta siamo di nuovo, e finalmente – viene da aggiungere –, on the road. Ma non una strada qualunque. Due giganteschi murales, infatti, sono andati ad arricchire la già vasta galleria di immagini sulla barriera di separazione tra Israele e i territori palestinesi (che si estende per circa il 10 per cento della Cisgiordania), in particolare lungo il tratto che costeggia la città di Betlemme. Dove il muro è costituito per lo più da lastre di calcestruzzo. In uno dei due murales è raffigurato l’abbraccio di Donald a una torretta di guardia dell’esercito israeliano incorporata all’interno del muro (nella foto in homepage). Sembra quasi che stia per baciarla in un tripudio di piccoli cuori rosa che uscirebbero direttamente dalla bocca presidenziale. Alcuni cinefili hanno scorto nell’immagine un chiaro riferimento al film del 1933 con la mitica sequenza di King Kong sull’Empire State Building di New York.
Nell’altro murales, invece, Trump è raffigurato con una kippah ebraica sulla testa mentre appoggia una mano su un muro (nella foto in alto). E una nuvoletta-fumetto ne rivela i foschi pensieri: «Sto per costruirti un fratello…». Se il disegno riprende una foto del presidente a stelle e strisce durante la sua visita, nello scorso maggio, al Muro del pianto di Gerusalemme, il riferimento dell’opera nel suo complesso è, invece, al muro che Trump vuole a ogni costo tra USA e Messico.
Non è chiaro se i due nuovi graffiti siano in realtà opera di Banksy. Ne ricordano lo stile, e tuttavia appaiono contrassegnati dalla sigla @LushSux, la firma di un artista australiano di Melbourne, già famoso per aver rappresentato in maniera critica anche Vladimir Putin e Hillary Clinton.
Ma le questioni di attribuzione, tanto care a noi addetti ai lavori, non devono distoglierci dalla riflessione evocata da questi due murales. I palestinesi ritengono la barriera un simbolo dell’occupazione israeliana, un pretesto per togliere loro ulteriori fette di territorio. Lo sappiamo. Per gli israeliani, invece, è l’unico modo per difendersi dagli attacchi e dalle incursioni palestinesi. Anche questo è noto. Né più né meno quello che potrebbe diventare il muro tra USA e Messico. Questo è il rischio incombente. Insomma, la storia, anche per gli irriverenti e anticonformisti street artists contemporanei, dovrebbe cominciare a fare la maestra di vita. Una buona volta. (CBS)
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