Dario Franceschini non ha, ancora, commentato, ma stavolta ci pensiamo noi. Perché l’inserimento nella cinquina da Premio Oscar come miglior film in lingua straniera di Non essere cattivo è esemplare.
Perché racconta non solo di una storia d’amicizia stravolta e troppo umana, come la vita sa fare (e il cinema in questo caso ne è la migliore rappresentazione), ma anche di uno sguardo antropologico sull’Italia e le sue periferie, a cui il Mibact ha deciso di prestare tanta attenzione. Nel film postumo di Caligari, scomparso a fine maggio e prodotto dall’amico Valerio Mastrandrea, siamo a Ostia, ma potrebbe essere qualsiasi altro potentissimo (non) luogo di qualche città di provincia della penisola.
Perché non essere cattivo racconta gli anni ’90, certo, ma ci mostra anche come siamo diventati: basta saper guardare un po’ avanti, e mutare lo scenario: lo sballo poco è cambiato, quell’atmosfera borderline di “gioventù bruciata” nemmeno. Al posto dello spaccio potrebbe esserci stato un lavoro in fabbrica, ma i soldi forse sarebbero stati gli stessi.
Per questo la scelta di farci rappresentare da Non essere cattivo è ottima, e spietata: perché racconta l’altro lato della Grande Bellezza, quel tentativo di ripulirsi che non sempre va a buon fine, quella disperazione (anche inconsapevole) che amava e spaventava Pasolini e che conosceva bene anche Jep Gambardella. Forse stavolta sarà più complicato portarsi a casa statuette, ma non la gloria per aver avuto lo forza di raccontare senza intellualismi un momento “radicale” e radicato della cultura italiana.
Appuntamento a Los Angeles domenica 28 febbraio 2016, ma un po’ abbiamo già vinto. (MB)