Negli originali si scopre anche la storia segreta della tavola e le tracce del processo creativo…
Diciamo pure che sono un disegnatore molto caotico. Non ho un vero metodo, per cui può capitare che si vedano le correzioni, le matite… I segni di tutti i miei ripensamenti. In particolare, il bianchetto ha una duplice funzione: un po’ serve realmente per correggere gli errori e un po’ diventa parte del disegno. Ad esempio: disegno un volto, non mi piace, ci passo sopra il bianchetto, lo disegno di nuovo, uso ancora il bianchetto… Alla fine il bianchetto non ha solo cancellato il primo volto ma è anche parte integrante del disegno finale.
Il bianco è parte delle figure e, al tempo stesso, le mangia. Riconosci nel tuo uso del bianco una tensione verso la sparizione?
Fra i tuoi artisti di riferimento c’è sicuramente Alberto Breccia. Penso in particolare al Breccia inquieto e radicale del primo Mort Cinder. Anche nei tuoi fumetti la luce si comporta in modo strano, come se i bianchi neri seguissero leggi proprie che si ridefiniscono di volta in volta…
È evidente che la direzione che ho cercato di prendere viene da lì e qualunque riferimento possa venire fatto a Breccia guardando le mie cose mi fa molto piacere. Quello che dici a proposito del bianco e nero, più che una cosa tecnica, forse è una questione di attitudine. In molti fumetti ci si affida al segno per definire personaggi e ambienti, e poi si aggiunge il nero dove ci sono le ombre: è una procedimento chiuso e abbastanza meccanico. Con Breccia i neri sono il disegno, non qualcosa che si aggiunge dopo per riempire. A me piace che le macchie facciano il disegno. Anche quelle bianche devono essere il disegno insieme al nero, non la parte vuota.
Nelle tue prime prove da autore completo, alla fine degli anni ‘90, si compie anche il passaggio dal tratto alla nuova tecnica a macchie…
È stato un processo continuo. All’inizio usavo un pennino sottile e comune inchiostro di china, adesso uso i pennelli, ma soprattutto dei pezzi di cartone che impregno d’inchiostro e poi schiaccio sul foglio. Sono cartoni diversi: rigati, ondulati… In questo momento il mio strumento da disegno principale è la carta. Col tempo l’ho raffinata, ma resta una tecnica abbastanza grezza e violenta. Deve essere violenta.
Periferie, degrado urbano, personaggi dall’esistenza precaria e sospesa, una diffusa e costante sensazione di pericolo. Puoi spiegare da dove viene un interesse così forte per questo tipo di situazioni?
Potrei risponderti semplicemente che non lo so. In realtà, è un po’ di tempo che mi chiedendo anch’io perché sono attratto da certi temi e da certe immagini. Ti posso dire che la mia attenzione, nelle storie ma anche nella realtà, si focalizza sempre su ciò che è marginale. Per me le cose interessanti succedono ai margini, il centro non m’interessa. Però ci tengo a dire che non ho mai cercato di fare racconti di stampo sociale, così come non ho mai voluto raccontare le storie vere delle periferie di Catania. Per me la marginalità è uno sfondo naturale. Se c’è una denuncia, allora è totalmente implicita nell’ambiente e nelle storie. Mi affascinano i personaggi isolati e mi sono accorto che, quasi sempre, sono assenti le istituzioni della vita reale, a cominciare dalla famiglia. Ho paura che la famiglia, che è così importante nella vita reale, particolarmente in Italia, appaia come qualcosa che spiega tutto, o troppo, della vita e del carattere di un personaggio. A me interessa il personaggio in sé.
Spesso le tue storie finiscono con una rottura: uno sparo, qualcosa che brucia… Brodo di niente, invece, inizia e finisce con una diserzione, è una storia circolare.
In Brodo di niente colpiscono la situazione paradossale, una guerra civile tra militari e preti, e un certo sarcasmo che non era mai stato così evidente nei tuoi lavori precedenti. A tratti trapela una strana forma di divertimento…
Sì, probabilmente ho inserito quelle cose sinistramente divertenti per bilanciare un po’ la materia che stavo trattando. Dovendo raccontare una vicenda molto cruda di violenze e devastazioni, era necessario, senza stemperare, evidenziare che non voleva essere assolutamente realistica, evitare che potesse essere scambiata per una specie di previsione.
Dal punto di vista narrativo succede un po’ come per il disegno: è come se cominciasse una storia, anche forte, e poi venisse progressivamente cancellata, sbianchettata…
Anche la storia è in sottrazione. Nel disegno ci sono i bianchi che vanno a cancellare parti del disegno, così nella storia ci sono veri e propri buchi narrativi, che per me sono importanti quanto quello che viene raccontato. Ogni volta che mi si presentava in mente uno sviluppo della storia più convenzionale, quasi sempre mi accorgevo che non era quello di cui la storia aveva bisogno. Meglio raccontare meno e mostrare di più. E cercare di conferire, non dico credibilità, ma un po’ di vita a questi personaggi così bidimensionali attraverso le azioni e gli episodi che non fanno andare avanti la storia in senso tradizionale.
Sono molto contento di quello che dici. Per me è importante che tutti i personaggi risultino imprevedibili, sfuggenti. So che molti narratori non la pensano così. Molti creano un personaggio e poi ti dicono che, anche se non lo raccontano, sanno tutto di lui, della sua famiglia, quello che pensa, che libri ha letto… A me questo non piace, mi affascina invece l’idea di raccontare degli estranei. C’è quasi un’intimità nel fatto di disegnarli a letto o mentre mangiano, e insieme c’è il piacere di sapere che restano inafferrabili.
Dunque, dei personaggi e della storia, tu ne sai esattamente quanto noi che leggiamo?
Esatto. Dei passaggi narrativi che non vengono spiegati, io non ne so e non ne voglio sapere nulla, non mi interessano. Non ti so dire perché. Non mi piace il racconto di tipo psicologico, come in quei fumetti dove l’autore ti fa entrare dentro la testa del personaggio, ti spiega le sue motivazioni, scrive dialoghi lunghissimi, monologhi interiori… Cerco di ottenere il contrario. Mi rendo conto che le azioni che compie il protagonista di Brodo di niente possono essere contraddittorie. A volte si comporta come un farabutto, altre volte con umanità. Quando mi chiedono chi è, io dico: “Un disertore”. È l’unica cosa certa. Più o meno.
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Andrea Bruno
a cura di alessio trabacchini
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