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in fumo_interviste | Gabriella Giandelli racconta Interiorae

di - 25 Gennaio 2006

Interiorae, il tuo ultimo libro, porta in primo piano gli spazi. È un po’ l’affermazione consapevole della tua tendenza a raccontare gli ambienti come entità vive e non semplici sfondi.
Volevo lavorare sull’idea di un edificio organico, un condominio che contiene la vita di molte persone, come un corpo che contiene organi. Non so ricostruire tutto il processo creativo, ma avevo chiaro che i singoli ambienti dovevano formare un labirinto dentro un’unità. Nei sotterranei poi esiste questa creatura, il Grande Buio, che raccoglie la memoria delle persone e assorbe i sogni. Ha il valore di una memoria collettiva. Ho operato una sorta di concettualizzazione degli interni, anche per ragioni di tempo non ho potuto disegnare tutti i dettagli che avrei voluto.

Un numero limitato di dettagli può essere un punto di forza. La tua capacità nel dare personalità agli oggetti ha influito nella tua esperienza come designer?
Quella è una piccola esperienza conclusa. È stata una cosa che mi ha fatto sentire anche un po’ inadeguata perché avevo voglia forse di raccontare troppo, inserire nell’oggetto troppe informazioni.

Tendi a raccontare molto anche nelle singole illustrazioni. Mi viene in mente una tua recente illustrazione per Internazionale dove disegni gli oggetti nel cassetto di Freud.
Si, è quello che mi interessa. Penso che quando fai illustrazione devi essere complementare al testo. L’immagine ha un tempo di lettura immediato, ma non deve essere didascalica. Deve suggerire qualcosa in più: un mio pensiero, un commento. Spesso vedo illustrazioni solo decorative e non ne capisco il senso. È bello lavorare per Internazionale. La maggior parte degli articoli che illustro sono scientifici, così ho l’occasione di esplorare argomenti distanti dalla mia formazione cercando una strada che rispetti la mia poetica.

Torniamo a Interiorae. Il messaggero del Grande Buio è un coniglio che osserva, invisibile, la vita degli inquilini. Apparentemente una nuova incarnazione dell’Uomo Tatuato di Hanno aspettato un po’ e poi se ne sono andate… e di Sotto le foglie, ma c’è un cambiamento…
E’ diverso, anche se continua ad essere la mia voglia di osservare. Si può dire che il coniglio sono io: un osservatore che partecipa mantenendo la sua distanza.

Il coniglio è più empatico dell’Uomo Tatuato.
L’Uomo Tatuato è davvero un occhio, un cicerone che guida il lettore. Il Coniglio è meno distaccato, ha una funzione narrativa come servitore del Grande Buio. Forse è un mio bisogno di essere più coinvolta, più dentro quello che racconto.

È anche l’irruzione del tuo mondo di illustrazioni per l’infanzia nelle tue storie a fumetti.
Non a caso è un coniglio. Ricordo un’intervista in cui si parlava di Milo, il coniglietto che ho creato per Mondadori. A quei tempi facevo fatica a vedere un’unità di percorso tra il mio lavoro per l’infanzia e quello per gli adulti, e invece mentre mi chiedevano di parlare di come cambiava il mio approccio, ho pensato che forse se Milo attraversasse un vignetta di uno dei miei fumetti, diciamo Silent Blanket, ci starebbe, avrebbe un suo senso. Mentre lo pensavo, ho deciso di provare davvero. Certo è un coniglio diverso, si allunga…

In Silent Blanket c’erano già gli animali parlanti.
Sono un coro di figure sagge che cercava di far capire al protagonista che esiste il male e che bisogna starne lontani…

Ti piace molto disegnare gli animali…
Soprattutto cani. Non ho mai avuto animali da piccola, a parte un criceto, così mi porto dietro questa idea che gli animali siano più intelligenti, più sensibili, più innocenti. Attributi che corrispondono ad un’idealizzazione infantile. Nelle mie storie fanno da contrappunto le paure e le inibizioni dei personaggi umani che invece subiscono le regole sociali e morali, uno specchio rovesciato che rivela la difficoltà di vivere.

Parliamo della musica.
È fondamentale: devo avere la mia colonna sonora quando disegno.

Ho letto che per Interiorae hai usato i Godspeed You! Black Emperor.
Sì, il primo album. Un amico me li ha fatti ascoltare e non ho più tolto il cd dal lettore. È come se facessero colonne sonore, li sento molto narrativi. Un altro gruppo che funziona per disegnare sono i Mogway. L’ambiente sonoro deve rispondere a un sentimento comune con quello che sto disegnando. La musica mi carica in un lavoro che per me è essenzialmente solitario. Ho bisogno di non rispondere al telefono, di non aver nessun in giro, di stare da sola. La musica mi aiuta a crearmi intorno una bolla perfetta per lavorare.

C’è un disco speciale per ognuna delle tue storie?
Per Silent Blanket era Ascenseur pour L’échafaud di Miles Davis, per Sotto le foglie Eleni Karaindrou: le colonne sonore per Anghelopoulos, in Hanno aspettato… era qualcosa di cantato…

All’inverso è difficile leggere un fumetto con la musica. La musica ha il suo tempo definito che non coincide mai, se non a tratti e per caso, con quello personale di lettura.
Ho provato ma non funziona mai. Tempo fa mi dicevo che sarebbe stato bello unire il cd al fumetto ma il tempo del fumetto è velocissimo e lentissimo insieme, ci sono le riletture, i ritorni indietro… Mattotti ha usato Eleni Karaindrou, la musica per Lo sguardo di Ulisse di Anghelopoulos. E quando me l’ha fatto leggere a casa sua a Parigi mi ha messo il disco. Lì aveva un senso, forse perché con Lorenzo ci conosciamo e riuscivo a capire certe cose…

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www.seuil.com
www.coconinopress.com
www.orecchioacerbo.com

alessio trabacchini

[exibart]

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