Silent Blanket è una tragedia greca, con l’eroe dominato dal destino a cui non riesce a opporsi e il coro di animali che ne commenta e ne compiange la sorte…
È vero. Mentre lo facevo non me ne rendevo nemmeno conto.
E racconta New York, la vita nascosta della metropoli.
Silent Blanket è nato dalle sensazioni provate nel mio soggiorno newyorkese. Ero molto giovane e un po’ sola, e avevo la sensazione che ci fosse una grande incomunicabilità tra le moltitudini che vivevano in quei palazzi, che l’appartenenza ai luoghi non sfociasse in una coscienza comune. Ho cominciato a prendere appunti. Al ritorno in Italia ho raccolto tutto il materiale scritto e fotografico e ho disegnato la storia. Non copio mai le fotografie. Già mentre le scatto imprimo nella mia testa dei volumi e delle situazioni che uso per crearmi un magazzino di memoria, forme che poi trasformo dopo averle interiorizzate. Tutta la parte che viene prima del fumetto la trovo meravigliosa: il raduno dei materiali, la musica, le foto, le facce. Anche se poi purtroppo le facce tendo a farle tutte uguali. Io però le percepisco molto differenti.
I tuoi personaggi vanno guardati con attenzione, sono sempre molto misteriosi e questo li rende interessanti. C’è anche una forma di rispetto per l’intimità e per i sentimenti che è un po’ in controtendenza rispetto ai tempi che sembrano andare verso un’esibizione molto diretta della vita interiore.
Intendi dire come se avessero un loro pudore?
Più come se fosse un tuo pudore a raccontare troppo, come se fossi portata a proteggerne il segreto.
Non mi piace lavorare con gli stereotipi, preferisco l’ambivalenza. Non l’ambiguità, che non mi interessa, ma la complessità. Un certo non detto mi pare suggerisca più possibilità alla lettura. Credo che mettendo sotto la lente un personaggio cercando di esaurire tutti i suoi aspetti impoverirei anziché arricchire la storia. La chiuderei troppo.
Il concetto è appunto l’apertura: racconti storie aperte che si aprono ancora di più lettura dopo lettura. Silent Blanket comunque è un noir…
Non lo potrei più fare oggi, anche se gli sono molto legata. Preferisco pensare a situazioni più complesse. Forse perché si invecchia e siccome si attinge dalla vita…
Forse hai anche meno bisogno dell’appoggio che può dare una struttura di genere, che agli esordi poteva servirti per tenere a bada la sceneggiatura.
Allora avevo bisogno di uno scheletro più definito. Ho frequentato anche una scuola di cinema che mi ha fatto fare un salto nel lavoro sulla sceneggiatura, anche se continuo a non fare storyboard e a lavorare col mio metodo un po’ strampalato.
Invece è rimasta immutata la stagione: è sempre inverno nelle tue storie.
È una cosa che non riesco a controllare. A volte mi domando perché, ma anche quando vado al cinema vedo che mi piacciono soprattutto i film invernali. Forse è un fatto di luci. Deve essere così, mi piace la luce dell’inverno.
Mi parlavi di come spesso la stampa non riesca a rendere tutte le sfumature dei tuoi originali. Hanno aspettato… con il suo bianco e nero contrastato al pennello dovrebbe perdere meno degli altri.
Sì, ma non ho usato il pennello. Probabilmente sono pazza: ho fatto tutto con il pastello nero, pestato fino ad ottenere l’uniformità. Cioè quello che normalmente faresti con la china impiegandoci un giorno, io l’ho fatto tutto con la matita colorata e dopo sono andata col pennello e la tempera bianca ad assottigliare alcuni punti. Gli originali hanno un effetto un po’ tridimensionale. A Treviso Comics c’erano Muňoz e Toppi in mostra con me ed erano allucinati. Sono stati molto carini, ma mi guardavano come se fossi matta. Tutta questa fatica l’ho fatta perché quando disegno ho bisogno di spingere molto, e questo non si può fare con il pennello. La mano ogni sera mi deve fare un po’ male per sentire che ho fatto il mio dovere.
Ti capita di rileggere i tuoi fumetti?
Mi piace andarli a riguardare e certe volte mi stupisco di cose che ho fatto e che non ricordavo e magari mi dico: caspita come ero brava.
E quelli degli altri?
Ultimamente pochissimo. Compro sempre i fumetti quando vado in Francia, le fumetterie in Italia non mi danno molti stimoli.
Non pensi che questo sia un ottimo momento per il fumetto?
Credo di sì. Ricevo Strapazin tutti i mesi e ho visto autori bravissimi. Recentemente ho letto i libri di due autrici israeliane pubblicate in Francia, che mi sono piaciute molto, Batia Kolton e Rutu Modan. E poi impazzisco per Daniel Clowes.
Che è molto diverso da te. Lui entra nelle cose con il bisturi…
E da un lato un po’ lo invidio. Mi piacerebbe poterlo fare anche se poi ne avrei paura. Poi ammiro l’eleganza del tratto, la sua genialità: il supereroe che acquista i suoi poteri fumando mi è sembrato fantastico…
A volte gli autori leggono poco altri fumetti perché hanno perso uno sguardo vergine.
Se devo dirti la verità ho sempre sentito l’ambiente molto asfittico. Amo il fumetto ma non mi piace trovarmi in quelle situazioni dove tutto è autoreferenziale, dove i fumettisti parlano sempre di fumetti. Mi sono sempre posta come obiettivo di mettere nel mio lavoro tutto il resto. Se ti trovi a una cena di fumettisti, sono quasi tutti uomini e c’è questa esibizione muscolare del chi è più bravo. A un certo punto iniziano a fare disegnini sulle tovaglie.
Il mondo del fumetto è quasi totalmente maschile e l’essere donna è fantastico perché puoi rimanerne fuori…
Si può parlare di fumetto femminile?
Ci sono autrici molto brave, come Francesca Ghermandi, straordinaria. Ma non parlo mai di fumetto femminile perché mi sembra autoghettizzante. È stata un’etichetta pesante, soprattutto agli inizi.
L’arte però si serve di definizioni, e il fatto di essere donna influisce, se non sul lavoro dell’artista, sulla percezione del pubblico.
A volte può anche aiutare. Fare fumetti da femmina ti consente di stare fuori dalla mischia e ti caratterizza. Ma cercare un filo rosso che unisce i lavori delle donne mi sembra tirato per i capelli.
Parlavi del tuo bisogno di non chiudere il fumetto in un ghetto autoreferenziale. Hai letto o visto qualcosa che ti ha toccato di recente?
Ora ho una passione profonda per Rick Moody. Ma leggendo altre storie si trovano sempre stimoli e atmosfere. Sento sempre il bisogno di scrivere di più nei fumetti, e vorrei avere un livello di scrittura migliore.
Hai scritto cose per altri disegnatori…
L’ultima è la storia d’apertura per il nuovo libro di Mattotti che raccoglie le sue storie sul viaggio e sono soddisfatta del risultato. Scrivere per un altro che rispetti è un’esperienza sorprendente: era bello vedere come Lorenzo svolgeva in immagini le mie parole.
I testi di Interiorae sono belli. Forse manca un po’ di armonia tra certa asprezza del parlato e l’atmosfera sospesa della storia.
A volte il testo è troppo secco, troppo direzionato.
In Silent Blanket era fortissima questa disarmonia poi la tua scrittura si è arricchita di sfumature.
Spero che sia un percorso che procede nella giusta direzione. Dato che il mio disegno è molto dolce ho sempre cercato di lavorare su una contraddizione interna, su parole che colpiscano come badilate. Vorrei che ci fosse più testo anche perché allungherebbe il tempo di lettura. Però sono ancora all’inizio, scrivo molto e poi vado pulendo.
I tuoi progetti immediati?
Oltre al completamento di Interiorae ho in cantiere un storia con Jerry Kramski: un lavoro lungo con molto testo suo e due immagini per pagina. È un bianco e nero con zone di colore che dà un effetto molto elegante.
link correlati
www.strapazin.ch
www.seuil.com
www.coconinopress.com
www.orecchioacerbo.com
alessio trabacchini
[exibart]
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