È quello che si definisce un “angelo viaggiatore”, non ha legami, si sposta continuamente. Ma ha anche una fisicità molto evidente…
Non ho mai provato a razionalizzarlo più di tanto, però ho sempre trovato protettivo il fatto che non sia qualcosa di etereo, ma abbia una fisicità e una solidità dichiaratamente maschili. La sua caratteristica è la libertà, la capacità di osservare con occhio sensibile senza rimanere troppo coinvolto in ciò che vede, senza restarvi incatenato. Che invece è proprio quello che succede agli altri personaggi, imprigionati dalle loro relazioni e dalle loro paure. Rappresenta la possibilità di andarsene, e questa è una cosa che, anche inconsciamente, associo al maschile, perché penso che nella società in cui vivo per loro sia più facile trovare spazi di libertà. Nei miei primi fumetti ho raccontato di uomini fragili e femminei nell’aspetto, probabilmente perché mi ci rispecchiavo in maniera più diretta. In Silent Blanket, ad esempio. L’uomo tatuato invece è un mio compagno di viaggio, non sono io, e mi aiuta che lui sia forte.
E non è mai minaccioso, anche se s’introduce nelle vite degli altri. Anche pietoso, secondo me, è implicito che lui provi tenerezza e comprensione per le persone che osserva, per le loro debolezze, i loro dolori… È bello sapere che c’è.
È anche un modo di raccontare delle cose molto intime senza che diventino esibizioni di sé…
Penso che l’Uomo Tatuato e il coniglio mi abbiano aiutato ad affrontare cose che hanno a che fare con la mia vita e con la mia esperienza in una maniera laterale, mantenendo un’onestà che non credo che si possa ottenere quando si lavora direttamente sull’autobiografia. Le mie storie sono finzione in cui introduco fatti successi realmente o persone e luoghi che esistono davvero. I luoghi di Sotto le foglie (il bosco, il paese, il cimitero) sono quelli in cui è cresciuta mia madre e dove io andavo in vacanza da bambina. Anche alcuni personaggi sono ispirati a parenti di mia mamma, così come un certo modo di affrontare la vita come qualcosa che va subito. Ci sono cose che mi hanno molto condizionata nella mia vita, e non direi in maniera positiva. Mi sta a cuore raccontarle, ma per farlo ho bisogno di riuscire a staccarmi e guardarle in maniera obiettiva, senza dare o darmi giustificazioni.
Hai usato tecniche diverse per disegnare le due storie.
È sempre difficile spiegare perché si comincia con una certa tecnica anziché con un’altra, è una scelta che prende forma insieme alla storia. Per Sotto le Foglie ho provato inizialmente con lo scratchboard, perché era un periodo che lo usavo molto, ma mi sono subito accorta che ci avrei messo troppo. La tecnica di Hanno aspettato… è strana, ho usato solo il pastello nero, cosa di cui in stampa non ci si può rendere conto, in effetti anche vedendo gli originali puoi pensare che sia china data molto pesante, ma se poi li guardi non sotto vetro allora lo capisci, perché il nero rimane più vellutato, più polveroso.
Non riesco a pensare solo al libro stampato, mi piace il rapporto fisico che ho con il disegno. Mi affeziono alla carta, alle imperfezioni, alle parti in rilievo, alla tridimensionalità che il disegno può avere con certe tecniche. Ad esempio, agli inizi usavo tantissimo le matite colorate graffiate con le lamette. I graffi lasciavano un bordino di carta spelacchiata. Cose che in stampa non si sarebbero mai viste.
E che spesso rimangono private, soltanto tue. Però il rapporto che hai con la fisicità dei materiali in qualche modo si riflette sul risultato finale. È importante anche la lentezza…
Sì, la lentezza, la ricchezza dei dettagli nel disegno, il rapporto con il tempo che passa. Non potrei mai raccontare una storia in cui si arriva alle 400 pagine con un disegno veloce.
E le mostre sono importanti?
Sì, mi piacerebbe farne di più, se non ci fosse l’inaugurazione. Lo dico seriamente, sento che le inaugurazioni mi portano via ogni volta una fetta di vita consistente. Credo che, per quanto riguarda il mio lavoro, mettere in mostra gli originali abbia un senso, le persone possono vedere qualcosa in più rispetto alla versione stampata. Tra l’altro, adesso sto collaborando con una mia amica che ha iniziato a realizzare dei ricami partendo da alcuni dei miei disegni e stanno venendo delle cose splendide. Certamente ne faremo una mostra, ma ci vorrà tempo perché è un procedimento lunghissimo.
Ti senti a tuo agio con la colorazione al computer?
Non completamente, anche se ormai ho acquisito molta esperienza. La prima versione di Sotto le foglie era il mio primo tentativo, avevo tenuto sempre le tinte al 100, e una volta stampati i colori erano molto saturi, troppo. Poi, nel 2008, Coconino mi ha proposto di pubblicare finalmente la storia in Italia, ma in bicromia. Normalmente non sono contenta se mi chiedono di stampare una cosa nata a colori in un altro modo, invece stavolta mi è sembrata un’opportunità. Ho preso i file già colorati e li ho tramutati in un unico pantone, che poi ho declinato con intensità differenti. Sono molto contenta del risultato finale.
Raccontavi durante l’inaugurazione che alla base di Sotto le foglie c’è anche un fatto di cronaca…
Hanno aspettato…, invece, come nasce?
È diverso, più cerebrale, forse. Voleva essere una storia sulle occasioni perdute. Perry, il protagonista, si sente inchiodato a un destino, quello della sorella malata, sente il tempo che gli passa addosso e non riesce a evolvere una possibile idea di libertà, un progetto di vita. Credo che sia una sensazione molto comune, se non si è imparato presto a sentirsi liberi, ci si lascia incatenare dalle cose e dagli affetti che diventano possessività.
Mentre parlavi del senso della storia, cercavo di immaginarmela senza l’Uomo Tatuato: sarebbe stata molto più triste, pesante…
Sarebbe stata deprimente, non malinconica. Di recente ho visto molti film di Mike Leigh, ed è stato importante per capire alcune cose. Quando vedo i film di Loach che raccontano di storie e ambienti simili, esco con un grande peso allo stomaco, invece in quelli di Leigh c’è qualcosa che, nella crudezza di ciò che mostra, ti fa sentire anche un po’ di speranza. Una mia amica mi ha fatto notare che questo avviene perché lui conosce e ama talmente i suoi personaggi che non li riduce mai a uno stereotipo prevedibile. E allora ciò che accade può essere triste – perché la vita è triste – ma non deprimente. È questo l’effetto che vorrei che facessero i miei fumetti, non deprimere il lettore, ma lasciargli sempre qualcosa di vitale.
Una questione di empatia. Una cosa che fanno spesso sia l’Uomo Tatuato che il coniglio è “guardare in macchina”. Cercano un contatto, un’intesa, con chi legge e, prima ancora, con te che li stai disegnando.
Sono ciò che lega il mondo della storia a quello fuori. Un giorno, mentre stavo finendo il secondo capitolo di Interiorae, ho trovato un enorme costume da coniglio abbandonato in un parco. Bianco. Una cosa incredibile, probabilmente quando sei concentrato su qualcosa diventi più ricettivo. La vita è anche magica.
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