Le frecce delle migliaia di arcieri oscurano il cielo. E i fiumi si prosciugano quando le truppe vi si abbeverano.
Frank Miller chiama l’armata persiana
“un Dio affamato”. E dalle pagine della sua graphic novel più premiata,
300, la fa rivivere, come produttore, nella pellicola campione d’incassi al cinema. Pellicola che, come già era avvenuto per
Sin City, ridisegna i confini tra celluloide e cellulosa, tra cinema e fumetto, proponendo una nuova scuola visiva, tanto stupefacente quanto sintetica. Al contempo, senza pretese di autorevolezza storica, s’inserisce nel contesto di uno scenario bellico, quello del 480 a. C., che letto in chiave contemporanea appare come la quintessenza del politicamente scorretto.
300 ha infatti esordito nella sua corsa verso la naturale ascesa agli incassi con un anatema lanciatogli dal popolo iraniano per bocca del suo stesso presidente:
“I nostri antenati persiani non erano i mostri che si vedono nel film”. È stato accusato di militarismo e pure di nazionalismo. Ma Miller è un autore di fumetti, non uno storico o un antropologo. La sua interpretazione della battaglia delle Termopili altro non è che una rilettura sofisticata (e graficamente sgargiante) della sensazione che ebbe, da bambino, quando conobbe per la prima volta la storia di Leonida e dei suoi trecento: un eroe impavido che lotta coi suoi fratelli per proteggere tutto quello che ama. E non è poi tanto diversa, nell’enfasi, da come certi storici greci ce l’hanno fino a oggi raccontata.
È una ballata romantica, una storia d’amore in un contesto di guerra, questo film, come il fumetto. Non una metafora dello scontro di civiltà. Gli spartani di Miller sono un po’ come gli
X-men di
Claremont: veri supereroi. Non sono uomini come gli altri. Staccano le braccia colpendo in volo gli avversari. Puntando i piedi, respingono migliaia di guerrieri. Li gettano in mare. Leonida è come Batman: uno spartano. Essenziale, minimalista, determinato, irriducibile. Impavido. Qui non si parla del mito del superuomo, ma della concezione romantica del superuomo di stampo fumettistico. Ed ecco che le tavole del fumetto rivivono nei mantelli degli spartani, colorati di un rosso acceso più del sangue dei nemici, contrapponendosi ai colori di terra, scale di grigio e marrone del campo di battaglia. Ai toni scuri delle divise del nemico, che nelle fattezze ricorda l’orda di Sauron de
Il signore degli anelli. È così che, in un capannone foderato di blu, rinasce un mito del fumetto moderno: ore e ore di post-produzione per dipingere e inchiostrare la celluloide come le tavole, a suo tempo. Ma non si scandalizzino i puristi, i dogmatici del cinema, perché è dai tempi di
Elliot il drago della Disney e, successivamente, dei vari
Roger Rabbit, che il cinema fonde realtà e finzione attraverso l’uso degli effetti speciali. E ancora: se il cinema prende a piene mani le idee dal mondo del fumetto, ossia l’humus stesso di qualsiasi processo creativo, non è forse lecito che omaggi questa arte sia nella forma che nella sostanza?
300 è un fumetto, prima di un film. Magari pecca nel tempismo della messa in scena, questo sì. Ed è un’operazione furbesca, dal punto di vista del marketing. Ma prendetelo per quello che è: una maestosa scarica d’adrenalina, di quella che ogni tanto anche il cinema riesce ancora a regalarci. Diventerà un classico, comunque.