Forse non tutti sanno che quel gran genio di
Tim Burton, cioè colui che preferisce la
nebbiosa Londra alla luminescente Hollywood, ha iniziato a lavorare
giovanissimo proprio nelle scuderie Disney. Così questo ragazzo cupo, oscuro e
geniale innovatore, si è ritrovato diciottenne e con una borsa di studio per la
California Institute of the Arts.
Alla fine degli anni ’70 Burton diventa ufficialmente un
animatore Disney. E partecipa alla realizzazione di un lungometraggio che, per
la generazione dei trentenni d’oggi, ha segnato la parentesi forse più
commovente dell’allora produzione animata. Si tratta della storia dei
nemiciamici Red e Toby. Disegnare per giorni
e giorni le “
graziose bestioline” non era la massima aspirazione di Burton, che
approfittava di ogni pausa per creare forme orribilmente attraenti e inedite,
ma nient’affatto affini all’universo Disney e alle forme graziose della
volpetta rossa e del cagnolino da caccia.
Eppure, almeno stavolta, il regista ha fatto un ottimo
servizio alla Disney. Ha confezionato un bel filmetto per bambini (perché
questo è l’unico pubblico cui è destinata la pellicola) catturando l’attenzione
mediatica con una promozione eccellente che, se unita alla fama di Burton, è la
migliore garanzia per ottenere incassi da record (puntualmente confermati nel
primo weekend di programmazione). Bilanci economici a parte,
Alice in
Wonderland rappresenta una delle più grandi delusioni firmate da Tim Burton. E pensare che
c’erano tutti gli ingredienti giusti per un’ottima produzione.
Cos’è che non va? La storia, innanzitutto. Ci ritroviamo
con un Alice un po’ cresciutella e ossessionata da un sogno ricorrente.
Un’Alice che, per sfuggire alla promessa di matrimonio con un lord vittoriano
bamboccione, si ritrova di nuovo nel Paese delle meraviglie. Un po’ Dorothy e
un po’ Giovanna D’Arco, Alice si muove confusa, e lotta quando c’è da lottare.
S’innamora del Cappellaio Matto e poi lo lascia a bocca asciutta, preferendo il
mondo reale e il commercio con la Cina. Ecco, doveva essere una storia diversa
da quella scritta da Lewis Carroll. E infatti lo è. Ma tutti gli spunti più
interessanti, guarda caso, sono citazioni della fantastica storia di Carroll.
Sono drammaticamente del tutto assenti le piroette di parole giocate sulla
logica. E vien meno la filosofia dell’assurdo così ricca di paradossi e
simbolismi.
Ciò che è peggio, questa nuova Alice non offre stimoli né
interessi. Fatta eccezione per le evaporazioni dello Stragatto e poco altro,
neppure dal punto di vista visivo ci sono segni della genialità di Burton.
Giusto qualche albero dai rami scheletrici e contorti, tipico della sua
produzione, è piazzato qua e là. E le occhiaie velate di Alice non bastano
certo a fare di lei un personaggio “alla Burton”.
Il film, nel complesso, è decisamente noioso. Ci si
aspetta che accada qualcosa che, ahinoi, non accade mai. Certe scelte
stilistiche sono apprezzabili. Ma non sono sufficienti a segnare la continuità
col passato. E neppure rompono la tradizione per offrire una visione nuova di
Wonderland e dei suoi abitanti.
Ciò che avevamo visto al cinema con
La sposa cadavere (
Corpse Bride, 2005) era qualcosa di
straordinariamente nuovo, poetico, geniale e surreale insieme. Utilizzando con
sapienza la stop motion, dopo la grande prova di
Nightmare Before Christmas (1993)
, Burton dimostra d’aver raggiunto
vette mai sfiorate. A questo punto immaginiamo che uno dei “problemi” di Alice,
beh, sia proprio l’attuale approccio
family centered della Disney.
La sposa
cadavere è una
produzione Warner Bros. Mentre
Nightmare Before Christmas fu prima bocciato, poi approvato
e prodotto in un secondo momento proprio dalla Disney. Il successo di questo
film d’animazione – ben accolto all’uscita ma diventato popolare solo dieci
anni dopo grazie al dvd edizione speciale lanciato dalla Touchstone – ha
stuzzicato i gusti di un nuovo pubblico. Non solo prodotti per bambini, quindi.
Ma anche favole nere capaci di appagare la mente e lo sguardo con inquadrature
e scenografie impossibili prima di allora.
Con
Alice in Wonderland, invece, sembra ci si spinga di
nuovo verso la famiglia, rinunciando così a inedite creazioni visive. In questo
film leggiamo una rinuncia alla poetica e alla suggestione a favore del
prodotto popolare. Insomma, non bastano gli effetti speciali (fin troppo
forzati a vantaggio di un 3d aggiunto solo successivamente) e uno spaesato
Johnny Depp (lontanissimo dai tempi della meravigliosa favola di
Edward mani
di forbice) per
dare continuità a un lavoro iniziato con il lungometraggio animato di Alice nel
lontano 1951.
Quello che al tempo non fu considerato un capolavoro, ha comunque
il merito di aver fatto conoscere e apprezzare l’opera di Carroll. Senza
considerare il fatto che, dopo
Pomi d’ottone e manici di scopa,
Alice nel paese delle
meraviglie è il
primo lungometraggio animato a essere proposto al pubblico in versione vhs nel
1984. Alla fine, anche in questo caso, il commerciale ha la meglio sull’opera.
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Seguo Barton da sempre e credo che la sua grandezza sia anche nel non ricadere nella solite proposte stilistiche e contenutistiche.
Ed anche nel prodotto "commericiale" si dimostra un fuoriclasse.Anche La fabbrica del ciccolato incarnava già in sè una "devianza".
La firma del migliore Burton, in Alice, è assolutamente riconoscibile, lo stralunato Deep sempre affascinante - se non altro per uno splendido trucco glam - le citazioni di moda contemporanea, dalla Westwood a Gautier, specie della contemporanea Alice, sono gustose... La convivenza di svariate tecniche, antesignane o post mediate dal digitale, la lavorazione delle riprese cinematografiche mixate alle ambientazioni da cartoon o stop motion, fanno si che il film si sviluppi su piani visivi sovrapposti e non solo quelli generati dal formato 3D (superfluo, in effetti), offrendo vere e proprie sfumature fotografiche e pittoriche (si pensi alla sovra-esposizione dell'habitat della principessa bianca) che accentuano la dimensione onirica, in bilico tra reale ed irreale, copia e finzione. Insomma, ci sarebbe molto da dire: ma credo che, sebbene un po' noioso (ma lo è la favola di Alice), questo prodotto faccia comunque impallidire tutto quello che c'è stato prima, della concorrenza e non, dai più recenti Pixar ai vari Avatar. Secondo me, quindi, l'Alice di Burton non delude...