Quindici anni fa, dalla matita e dalla penna di
Terry Moore nasceva una nuova concezione di narrativa grafica. Katchoo, Francine e David, i tre punti focali di questo “romanzo disegnato”, prendevano forma e diventavano veicolo dell’emotività umana componendo, vignetta dopo vignetta, un puzzle di indescrivibile bellezza.
Alla base di tutto, la frase con cui l’autore americano apre il primo volume: inquadratura su un palco all’interno di una high school, saggio di teatro di fine anno e un comprimario intento a dichiarare “
senza amore noi non siamo altro che Estranei in Paradiso”. E dopo solo un vortice di legami, saggiamente mischiati con sfumature avventurose quanto basta per non esser troppo devianti all’interno di un processo, quello del rapporto tra le due protagoniste, raffigurazione della sensibilità più pura.
In
Strangers in Paradise (abbreviato in SiP dai suoi lettori) si ride e si piange; si rimane con il fiato sospeso e si viene cullati dalla leggerezza del vivere. Impossibile non ritrovare nei gesti e nelle azioni dei personaggi che attraversano questo mondo
reale creato da Moore componenti comuni al nostro vivere e al nostro ricordare.
E se anche certe situazioni, presenti nei 23 volumi editi in Italia finora possono strizzar l’occhio a un pathos eccessivo, non si deve cadere nella superficialità, poiché l’autore molto spesso smaterializza la fisicità dei personaggi per elevarli a simboli totali di sensazioni e pensieri. Katchoo è l’istintività, Francine la timidezza e la paura di esternare ciò che si vive, David la logica e la calma:
unendo questi caratteri, un intero universo si sviluppa a favore di innumerevoli istanti, che coinvolgono toccando le corde giuste.
L’abilità narrativa di Moore, premiato con il prestigioso Eisner Award per la Miglior Serie nel 1996, sta nel giocare continuamente con le sue appendici grafiche, valorizzando estremamente tanti piccoli momenti che potrebbero sfuggire a chi non sa ascoltare od osservare. SiP è una storia di amicizia e di rapporti complicati, ma rifugge sempre dai cliché di genere, trascinando con sé il lettore in un viaggio agrodolce.
Il disegno segue questo continuo mutare e sentire: la matita dello statunitense è capace di creare una classica impostazione umoristica dei personaggi (quasi legata a una visione cartoon) fino a illustrazioni a tutta pagina dove parole e tratti si fondono in quadri visivi affascinanti, vere e proprie trasposizioni oniriche. Interessanti anche gli innesti testuali. Ecco che, voltando pagina, il racconto prosegue attraverso le parole e il disegno diventa semplice corollario, in modo che il lettore non veda totalmente la scena ma la
senta. Cambi di stile continui e mai incerti quelli adoperati da Moore, che si diverte e fa divertire con la sua sperimentazione, alla ricerca di una copertura totale per poter meglio raccontare le sue creature intente a fronteggiare la vita.
Ritenuto il fumetto anche per “chi non legge fumetti” e fortemente amato dal pubblico femminile, SiP entra di diritto nell’immaginario collettivo del mondo delle nuvole parlanti grazie alla sua continua mutazione ed evoluzione, che lo rendono difficilmente inquadrabile in un determinato genere. Può esser considerato poesia, cronaca umana, piccolo ritaglio di vite semplici, critica di una società che non comprende il potere dei legami. Può essere questo e molto altro ancora.
E ora che il viaggio è terminato, non senza regalare qualche lacrima per la loro partenza, i personaggi tornano a riposare nella boccetta di china da cui sono usciti, inondando con fiumi di nero e bianco le vite di tutti gli Estranei del
nostro mondo.