Insieme a Luca de Santis ti sei recata alle Isole Tremiti, dove è ambientata in parte la storia. Che tracce avete trovato di quel passato?
Alle Isole Tremiti, in particolare a San Domino, luogo dell’effettivo confino degli omosessuali, cercavamo i luoghi fisici che ci potessero ispirare sia nella scrittura che nella resa grafica. Cercavamo di capire che tipo di luogo potesse essere stato e coglierne l’atmosfera, la luce, anche se a distanza di tanto tempo le cose potevano essere cambiate. Le Isole Tremiti, nella loro desolata bellezza, raccontano ancora oggi molto bene la loro lunga storia di abbazia-fortezza prima e carcere borbonico poi. Il problema, però, quando si fa un lavoro ricreando l’immagine, è che o si cerca un’immagine fortemente filologica, oppure si va verso una ricostruzione verosimile. Io ho lavorato più sulla seconda, perché di fatto esistono pochissimi materiali iconografici cui far riferimento. Alle Tremiti abbiamo riscontrato delle singolarità rispetto agli altri luoghi di confino: i confinati dormivano in cameroni comuni, ma queste strutture in parte non esistono più o sono state modificate nel tempo. Altra particolarità è che, data la stretta economia di sussistenza delle isole, i confinati non riuscivano a lavorare se non attraverso piccoli servizi ai carabinieri, dando una mano in campagna o arrangiandosi come potevano. Prendendo spunto da queste differenze, e non essendoci foto né materiali video, abbiamo cercato di ricostruire con delle impressioni una condizione che conoscevamo solo attraverso poche e spesso discordanti voci di testimoni. Sull’isola di San Domino ci è venuto in aiuto il professor Pio Fumo, tremitese d’adozione, ma gli anziani del posto ricordano invece più facilmente il passaggio di Pertini, detenuto a San Nicola per pochi giorni, che la presenza di quasi 300 persone che hanno vissuto sull’isola per due anni. Una mancanza di memoria abbastanza significativa. In questo non ricordare c’è un altro elemento che emerge nel libro, ovvero come ciò che si identifica come parte di un passato glorioso, anche nei suoi aspetti più brutti, viene ricordato con emozione, mentre quello che non è classificabile viene rimosso.
Il fumetto come mezzo per affrontare argomenti meno scontati legati, talvolta, alla sessualità: gay, aids… Ma anche come riflessione sulle contraddizioni del vivere quotidiano, come in Monsieur Bordigon, “scarafaggio filosofico”…
Il fumetto come espressione grafica letteraria, ovviamente, si può occupare di tutto. Quello che m’interessa è che ci sia equilibrio tra la parte scritta e la grafica, che le due cose non siano giustapposte ma creino un dialogo e quindi un linguaggio autonomo rispetto a quelli più tradizionali. Personalmente le difficoltà mi stimolano ed è per questo che mi interessano non tanto temi originali quanto maniere originali di raccontarli. Nel caso di In Italia sono tutti maschi, ad esempio, Luca e io ci siamo trovati d’accordo sul fatto di alludere e non mostrare mai esplicitamente scene erotiche, perché ci sembrava che la forza di questo racconto fosse proprio nelle sfumature, nelle pieghe dei sentimenti che si sviluppano fra i personaggi. L’unica scena che possiamo definire erotica è quella del bacio fra Mimì e A’Caprara, che è una scena forte soprattutto per la carica di violenza e sopruso che porta con sé. Cerco insomma di lavorare sulle storie, nelle pieghe delle storie. E quindi c’è l’elemento della diversità, che diventa protagonista, come in Monsieur Bordigon, scritto da Francesco Satta: la dissonanza, il senso di sfasamento rispetto al mondo, sono elementi che ci permettono di vedere quello stesso mondo attraverso un’ottica diversa. Il fumetto mi piace proprio perché permette di rappresentare questi elementi sfruttando più piani di lettura e permettendo diversi approfondimenti.
Sei laureata in Conservazione dei Beni Culturali all’Università di Udine. Quando e come nasce il tuo interesse per il fumetto e l’illustrazione, tanto da farti decidere di intraprendere una strada un po’ diversa da quella della formazione?
Mi sono sempre interessata al fumetto. Sono cresciuta leggendo Candy Candy, per cui ho una prima formazione da manga-maniaca. Il mio percorso di studi è stato articolato, ma alla fine abbastanza coerente con la necessità di costruirmi come persona. C’è stato un momento in cui ero particolarmente interessata al cinema, in particolare alla conservazione del patrimonio cinematografico, che è stato l’argomento della mia tesi. Per un po’ ho seguito questa carriera che ho seguito, poi ho incontrato sulla mia strada una persona, Francesco Satta, che aveva scritto un racconto molto bello. Francesco mi chiese se avevo voglia di disegnarlo. In passato avevo seguito dei corsi di fumetto, ma in maniera del tutto amatoriale, ed erano dieci anni che non prendevo in mano una matita. L
Spesso i tuoi lavori sono il frutto di collaborazioni con altri autori. Con Luca de Santis avevi già realizzato il cortometraggio sulla prevenzione di Aids-Hiv, Le Malefiche disavventure di Mr. Hiv (2001), e la serie a fumetti e il corto animato Cream (2003). Con Francesco Satta, invece, hai firmato vari lavori, a partire da Pranzo di famiglia fino alle storie di Monsieur B. (Monsieur Bordigon). È difficile relazionarsi ad altri autori e in che modo si sviluppa l’interazione?
Personalmente è una cosa che trovo particolarmente stimolante, un confronto che può essere molto vivace, ma che porta sempre a buoni risultati. Ho la fortuna di lavorare da molto tempo con persone con cui c’è una forte condivisione ed empatia. Una bella occasione di lavoro a quattro mani è stata anche quella di Lupin III: Nei panni di Zazà con i testi di Massimiliano De Giovanni. Dove c’è dialogo c’è sempre l’occasione di un completamento reciproco.
Il tuo segno/stile è ironico, essenziale, espressivo, ma tutt’altro che privo di emotività… C’è anche chi lo definisce “alla Satrapi”. Cosa ne pensi?
Addirittura! Marjane Satrapi, però, ha un segno molto più sintetico del mio, che invece cerca di descrivere i personaggi nella loro rotondità. Anche dove è sintetico credo che il mio segno resti comunque affascinato dalle forme e dai dettagli, non ha una volontà di astrarre la figura fino a riportarla a un’icona. Ammiro moltissimo Satrapi, perché è un’abilissima narratrice e un’ottima disegnatrice, però in effetti penso che ci sia una certa differenza tra il suo segno e il mio. Nel tempo ho cercato di evolvere uno stile che fosse sì sintetico, ma con una sua pastosità, una sua morbidezza. Mi piace usare strumenti che mi permettono di catturare il lettore in un’immagine, senza però distrarlo con un eccessivo virtuosismo. Il lavoro che faccio sul segno è di pulizia.
Fra tutti i personaggi che hai creato, ce n’è uno, in particolare, in cui ti rispecchi maggiormente?
È una domanda difficile, perché come tutti gli autori spargo semini un po’ ovunque. Forse, però, in In Italia sono tutti maschi c’è un personaggio che è una specie di mio alter ego maschile: Rocco, il documentarista.
Parlando della diffusione della cultura del fumetto negli ultimi, c’è stato da una parte una produzione di storie più attente alle tematiche contemporanee e dall’altra uno sdoganamento del fumetto da parte di alcuni ambienti intellettuali, che ha permesso di poter riaprire dei canali di lettura e riportare l’attenzione su questo linguaggio espressivo. Fino agli anni ‘90, salvo poche eccezioni come l’esperienza di Valvoline e di altri autori sperimentali, scarseggiava la pubblicazione di un buon fumetto d’autore contemporaneo. Naturalmente era diffuso il fumetto classico, da Hugo Pratt agli altri grandi disegnatori del fumetto italiano ed estero, e c’era il fumetto seriale di carattere popolare – da Dylan Dog, Martin Mystère, al manga – tuttavia mancava un fumetto che riflettesse più attentamente il nostro tempo e i nostri luoghi. Il dialogo è stato riaperto da case editrici come Granata Press, Kappa edizioni, Coconino Press, Black Velvet, proponendo tematiche contemporanee di un certo spessore, a volte giocando con i generi quali avventura, fantascienza, storico, comico o erotico, ma mai abbandonandosi totalmente ai cliché. Quello che sta succedendo oggi in Italia è una cosa curiosa e forse naturale: ci sono molte case editrici nate di recente che hanno potuto beneficiare di questa faticosissima apertura di pista durata più di un decennio, e che ora pubblicano moltissimo, ma non sempre quel prodotto editoriale ha una qualità omogenea.
Progetti futuri?
Sto finalmente iniziando un progetto che ho in cantiere dal 2001. Come avrai capito, i tempi del fumetto sono spesso lunghissimi. Personalmente, poi, cerco di occuparmi solo di lavori che sento particolarmente, coltivandoli e arricchendoli per il tempo necessario alla qualità finale. Il progetto non ha ancora un nome, ma è ambientato in Svizzera negli anni ’50 e racconta le vite di alcuni emigrati italiani nel cantone tedesco. La storia è ispirata a vicende biografiche della mia famiglia. Ho quasi finito di raccogliere i materiali, ho trovato delle bellissime fotografie dei miei genitori e poi ci sono i loro racconti, che ho iniziato ad annotare già da un po’. La storia nella mia mente sta cominciando a organizzarsi e sto già facendo dei bozzetti. La storia parlerà di una immigrazione moderna, di speranze, di tentate emancipazioni, di scontro, e rispecchia per alcuni aspetti quella degli immigrati che stiamo accogliendo oggi in Italia.
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