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Claudia Andujar e gli Yanomami alla Fondation Cartier
#iorestoacasa
di Livia De Leoni e Camilla Boemio
A Parigi, alla Fondation Cartier pour l’art contemporain, la personale di Claudia Andujar (1931, Neuchâtel, Svizzera), “La Lutte Yanomami” a cura di ThyagoNogueira, dedicata al lavoro della fotografa e attivista svizzero-brasilina con la popolazione Yanomami, nativa della foresta amazzonica e in lotta per la sopravvivenza.
La mostra, allestita nelle sale della fondazione fino al 10 maggio, è ora chiusa al pubblico. Ve la raccontiamo attraverso le recensioni di Livia De Leoni e Camilla Boemio.
Una vita con gli Yanomami
di Livia De Leoni
Nel cuore della foresta pluviale amazzonica, tra il nord del Brasile e il sud del Venezuela, vivono gli Yanomami, uno tra i più importanti popoli amerindiani. La spiritualità e la vita quotidiana di questo popolo autoctono vengono restituiti dagli scatti di Claudia Andujar nella mostra La Lutte Yanomami curata da Thyago Nogueira, presso la Fondation Cartier pour l’art contemporain a Parigi. Classe 1931, elvetico-brasiliana, sin dagli anni ’70 Andujar s’interessa agli Yanomami impegnandosi nella difesa e sopravvivenza della loro cultura – non conoscendone la lingua erige la fotografia a forma di comunicazione.
Napëyoma, la donna bianca – come la chiamano nella comunità – è autrice di una delle più importanti opere fotografiche a loro dedicate, ma il suo lavoro non ha solo un valore artistico ma anche politico. Membro fondatore della ong, Comissão Pró Yanomami (CCPY), Andujar e Davi Kopenawa, sciamano e portavoce carismatico della comunità, nel 1992 hanno ottenuto il riconoscimento della zona designata quale Terra Indígena Yanomami.
Non si tratta per loro solo di un’area, poiché la urihi, cioè la loro terra-foresta, che racchiude circa 96.650 chilometri quadrati di foresta tropicale, è una creatura vivente, che prova gioia o dolore, per esempio per l’abbattimento di alberi.
Un luogo magnifico rivelato qui da foto infrarossi, vedi La Foresta (pellicola a infrarossi, Roraima, 1972-76), o La Casa collettiva vicino alla Missione Cattolica sul fiume Catrimani (Roraima, pellicola a infrarossi, 1976). Quest’ultima presenta lo yano, un’abitazione collettiva circolare, abitata dai membri di un’unica entità economica e politica, immersa in una rigogliosa natura, qui restituita da un estraniante rosso magenta. A infrarossi, a colori o in bianco e nero, le foto di Andujar rivelano un’incredibile padronanza tecnica che risolve il problema dell’oscurità in cui è immersa la foresta, oltre ai modi di vita e a pratiche spirituali come lo sciamanesimo. Gli uomini-spiriti, ossia gli xapiri thëpë – indotti in trance dalla polvere allucinogena yãkoana – vengono immortalati da scatti intensi, in cui vediamo lo sciamano Tuxaua João che soffia yãkoana nelle narici di un ragazzo durante la festa reahu (Catrimani, Roraima, 1974), o il giovane Wakatha u thëri, vittima del morbillo, curato dagli sciamani e dagli assistenti della missione cattolica Catrimani (Roraima, 1976). Si tratta di foto in grande formato, porose e oniriche, che colgono gli adepti lungo questo viaggio ‘ultraterreno’.
Il percorso, accolto nel bell’edificio ideato dall’architetto Jean Nouvel, apre una seconda sezione che narra tra disegni, video, film e foto, l’intricata storia di questo popolo, dallo sfruttamento minerario con i cercatori d’oro illegali, alle malattie infettive causate dai primi contatti col mondo esterno. Durante il regime militare, subentrato in Brasile nel 1964, si vedranno gli effetti nefasti del contagio, o più precisamente negli anni Settanta nel corso del progetto dell’autostrada Perimetral Norte, che abbandonato poi per mancanza di fondi, porterà tra morte e distruzione 225 chilometri d’asfalto nel territorio amerindio.
La vegetazione e la gente sono colte come un unico corpo, qui lo sguardo di Andujar eternizza gestualità, emozioni e peculiarità di ogni individuo, ma è anche scientifico poiché cataloga, analizza e conserva preziosi istanti di vita sociale e di attivismo politico. La naturalezza con cui posano le persone ritratte facilita la relazione empatica con il pubblico che si addentra così, senza troppi freni, nel mondo dell’altro, quello degli Yanomami.
Bambini, vecchi, donne e uomini, vengono ritratti da Andujar singolarmente in piedi davanti una semplice parete di legno, lo sguardo sull’obiettivo e una targhetta numerata appesa al collo. Perché? Per arginare il deterioramento delle condizioni di salute degli amerindiani, tra l’80 e l’87 vengono avviati dei programmi sanitari di vaccinazione. Per sopperire alla mancanza di dati identificativi, a ogni individuo viene attribuito un numero e un tesserino sanitario con foto, con il calendario delle vaccinazioni, e via dicendo.
Un lavoro di identificazione che ha salvato molti indigeni, e che ha dato vita al film Genocidio Yanomami, Morte no Brasil (1989), e a una delle serie più famose della fotoreporter, cioè Marcados. Ricordiamo che tra i mille cliché di Marcados alcuni sono stati presenti nella collettiva America Latina, 1960-2013 presso la Fondation Cartier pour l’art contemporain nel 2014, e alla Biennale di San Paolo nel 2006. La concezione della foresta e del cosmo degli Yanomami vengono qui rappresentati con i loro disegni, questi rimandano inoltre a una storia che risale al 1974, quando Andujar insieme all’italiano Carlo Zacquini della missione Catrimani – che parla la loro lingua – avviarono questo sorprendente progetto grafico.
Si parla anche di Jair Bolsonaro, presidente della Repubblica Federale del Brasile dal 2018, la cui posizione nei confronti del territorio amerindio è tristemente nota, sostiene infatti la deforestazione e l’incremento di un’agricoltura intensiva, a danno del territorio indigeno. Il più grande polmone verde del mondo vive in un eterno conflitto che genera pericolo, con chi lo definisce semplicemente un territorio, cioè un’area delimitata da sfruttare per scambi commerciali fine a se stessi, e chi terra ossia un essere vivente da proteggere, in linea con i principi dello sviluppo sostenibile. La visione olistica che restituisce questa mostra permette di prendere coscienza come la difesa dei diritti umani, la salvaguardia dell’ambiente e della diversità culturale non siano solo riconducibili a un’etichetta apposta su un prodotto sostenibile, ma riguardano ognuno di noi. In questo senso il contributo di Claudia Andujar è straordinario, in aggiunta a quello dato all’arte fotografica tout court.
A causa delle misure di contenimento legate alla pandemia di Covid-19, la mostra è inaccessibile al pubblico, ma la Fondazione Cartier ha creato un sito interattivo per scoprire vita e lavoro di Claudia Andujar.
La lotta primaria
di Camilla Boemio
Un’indispensabile rilettura dell’arte moderna e della contemporaneità ha portato, negli ultimi anni i musei più attenti, come la Tate Modern, e le Fondazoni private più innovative ma anche spazi no-profit a sviluppare progetti, sezioni di ricerca e mostre nelle quali si approndissero il Modernismo in chiave transnazionale, l’Africa & African Diaspora e la First Nation & l’Indigenous Art.
C’è un momento nel quale si è persa la propria ombra; l’Occidente distratto ha fatto sì che in molti dimenticassero la propria ombra. Questa fase concitata, acellerata del capitalismo, sembra acquietarsi in questi giorni di quarantena, per il coranavirus, trasformando la realtà in una sorta di limbo atemporale nel quale riscoprire se stessi; ma anche un interesse per l’arte più riflessiva; meno mondana e orientata verso delle tematiche che possano farci capire che siamo tutti connessi, tutti dipendenti e parte di un unico insieme.
In questa ottica la mostra “La Lutte Yanomami” di Claudia Andujar alla Fondation Cartier pour l’art contemporain, ha colpito la mia attenzione; anche la Andujar ha sempre cercato la risposta al significato della vita. Nella giungla amazzonica ha ritrovato se stessa; interagendo con gli indigeni, la terra, e la lotta primaria.
Basata su quattro anni di ricerche nell’archivio fotografico, questa personale curata da Thyago Nogueira per l’Instituto Moreira Salles in Brasile, si concentra sul suo lavoro di questo periodo, riunendo oltre trecento fotografie, una serie di disegni Yanomami e l’installazione audiovisiva Genocide of the Yanomami: la mostra presenta negli spazi della fondazione vari passaggi nei quali l’allestimento viene modulato in varie fasi; da quella più spettacolare nella quale le grandi stampe fotografiche accompagnano il visitatore immergendolo nella narrazione, fino ad un allestimento d’archivio nel quale l’attenzione viene accompagnata nei dettagli.
Le due sezioni della mostra riflettono la duplice natura di una carriera impegnata sia nell’estetica che nell’attivismo.
La prima sezione presenta le fotografie dei suoi primi sette anni vissuti con gli Yanomami, mostrando come ha affrontato le sfide dell’interpretazione visiva di una cultura complessa. La seconda parte mostra il lavoro che ha prodotto durante il suo periodo di attivismo, quando ha iniziato a usare la sua fotografia come strumento verso gli altri per il cambiamento politico.
Colpiscono i volti degli indigeni; il viso di un bambino che emerge dall’acqua di un fiume, la natura che avvolge e protegge il villaggio, i balli propiziatori, ma anche le scelte cromatiche nelle quali svettano i colori accessi che dialogano con il bianco e nero.
L’ombra si intravede; tra i volti di chi è stato relegato, dimenticato.
Ciò che emerge non è solo il potere evocativo e seducente delle immagini, ma il ruolo principale dell’artista come attivista per i diritti umani nella difesa degli Yanomami.
La Fondazione Cartier rende possible la fruizione della mostra anche grazie alla video documentazione nel sito ufficiale dedicata al lavoro di Claudia Andujar disponibile qui.